È stata ribattezzata “Cupola 2.0” la recente operazione condotta nella città di Palermo dalla Direzione distrettuale antimafia e dai carabinieri del Comando provinciale che ha portato all’arresto di 46 esponenti di Cosa nostra. L’indagine rappresenta uno spaccato vivido della realtà odierna della mafia palermitana. Quella smantellata dalle forze dell’ordine è una parte rappresentativa della struttura criminale del capoluogo siciliano. Tra gli arrestati figurano quattro capi-mandamento, una decina tra capi famiglia e altri personaggi di rilievo.
Al di là dell’appeal mediatico dell’inchiesta, che nasce a poco più di un anno dalla morte del boss corleonese Salvatore Riina, come suggerito dal nome dell’operazione, quella osservata attraverso le lenti degli investigatori, è una mafia vecchia tanto nella forma quanto nella sostanza. Così non stupisce più di tanto che tra i destinatari delle ordinanze di custodia cautelare vi sia la figura di Settimo Mineo, ottantenne, gioielliere di professione. Come si evince dal dato anagrafico, non siamo di fronte a un personaggio nuovo. Fu Tommaso Buscetta a indicarlo quale uomo d’onore della famiglia del mandamento di Pagliarelli. Nel 1982, Mineo era perfino sfuggito a un agguato in cui venne ucciso il fratello (l’anno prima aveva perso un altro fratello in modalità quasi del tutto identiche). Al termine del maxiprocesso scontò cinque anni di carcere, poi a distanza di tempo, nel 2006, se ne aggiunsero altri dieci. Mineo è solo uno dei protagonisti dell’operazione Cupola 2.0. L’indagine ha fatto emergere l’ennesimo tentativo di ricostituire la Commissione provinciale di Cosa nostra, a cui avrebbe partecipato anche l’anziano gioielliere nel ruolo di rappresentante dopo la morte di Riina. Sono poi emerse numerose estorsioni (27) e rivelato la realizzazione di altre attività illecite in diverse zone della città di Palermo.
Questo per quanto riguarda i fatti. L’inchiesta suggerisce alcune considerazioni che possono essere sintetizzate per brevità espositiva in due differenti immagini. La prima immagine è quella di un fenomeno mafioso in crisi, nel suo significato etimologico, dove il termine crisi assume un’accezione neutra, nel senso che rimanda a uno stato di trasformazione non necessariamente peggiorativo. La seconda immagine, all’opposto, è quella di un fenomeno mafioso persistente e pervicace, in grado di riorganizzarsi e di far fronte in poco tempo agli arresti e ai sequestri delle forze dell’ordine. Si tratta di due immagini apparentemente contrapposte, eppure come si vedrà sostanzialmente sovrapponibili e complementari.
Partiamo dalla prima. Sebbene da un punto di vista conoscitivo possa essere poco utile argomentare sullo stato di salute delle mafie è indubbio che Cosa nostra palermitana, rispetto ad alcuni anni fa, sia oggi fortemente ridimensionata, quantomeno nella sua dimensione criminale extra territoriale. L’operazione Cupola 2.0 costituisce l’ennesima conferma di una mafia ormai ripiegata all’interno del proprio territorio, impegnata prevalentemente nella riscossione del racket delle estorsioni, nello spaccio di stupefacenti e nel gioco d’azzardo. Un simile stato di cose è imputabile ovviamente a una molteplicità di fattori, anche interni a Cosa nostra, ma il peso decisivo va senza dubbio attribuito alla variabile repressiva. Mai come negli ultimi anni, l’attività delle forze dell’ordine è stata così incisiva. D’altra parte, si diceva, l’indebolimento della mafia palermitana è dovuto anche a fattori interni. Tra gli aspetti che emergono dalla lettura delle carte dell’indagine Cupola 2.0, il dato anagrafico è forse uno tra i più significativi. Detto dell’ottuagenario Mineo, dei circa cinquanta ordini di cattura, circa la metà riguardano esponenti mafiosi ultracinquantenni, di cui otto con più di sessant’anni. Solo due tra gli arrestati hanno meno di trent’anni, per un’età media complessiva che si attesta su 49,7 anni. Occorrerebbero certo altre evidenze empiriche, ma il dato anagrafico testimonia un ricambio generazionale che forse – aggiungerei fortunatamente – incontra oggi alcune difficoltà. In una prospettiva comparativa, un altro elemento sembrerebbe confermare il quadro appena descritto. Nelle stesse ore in cui i carabinieri del Comando provinciale di Palermo eseguivano gli ordini di cattura degli esponenti di Cosa nostra, a poche centinaia di chilometri di distanza, la Procura distrettuale di Reggio Calabria dava inizio a una maxi operazione che vedeva impegnate forze di Polizia della Germania, dei Paesi Bassi e del Belgio, in un’azione comune contro la ‘ndrangheta e le sue proiezioni in Europa e nel Sud America. Ora, lungi dal voler stilare classifiche sulla pericolosità delle mafie di dubbia utilità conoscitiva, è evidente come Cosa nostra, a differenza della ‘ndrangheta, non disponga più di quella rete criminale internazionale che ne aveva alimentato il potere e la ricchezza negli anni passati.
Accanto a questa rappresentazione di una mafia in crisi, le carte dell’indagine Cupola 2.0 fanno emergere anche l’immagine di una organizzazione criminale radicata e ramificata sul territorio. La persistenza delle cosche palermitane è un dato di fatto di per sé preoccupante perché si verifica in un contesto dove l’azione repressiva è stata negli ultimi anni, come si diceva, particolarmente forte. È dunque piuttosto allarmante constatare come le famiglie mafiose siano in grado di riorganizzarsi mantenendo nel tempo quella compattezza e quella unità che da sempre le contraddistingue rispetto ad altre organizzazioni mafiose. Si diceva poi del dato anagrafico. In generale, il recupero delle figure degli “anziani” risponde a una più ampia strategia criminale, che comprende anche la ricostituzione della Commissione provinciale, il ripristino di tradizioni e regole come il rito di affiliazione attraverso la “punciuta” o il divieto di relazioni extra-coniugali, che possono anche far sorridere e apparire anacronistiche ma che rivelano il tentativo di tener viva una identità comune che possa unire le famiglie e i gruppi di Cosa nostra. Del resto, il ritorno al passato non è mai fine a sé stesso. La tradizione viene selezionata e manipolata per essere adattata alle esigenze del presente. E d’altra parte ciò spiega anche l’insistenza delle cosche per la riscossione del pizzo, nonostante la resistenza di un numero maggiore di imprenditori e commercianti, i cui introiti, oltre a sancire il riconoscimento dell’autorità mafiosa, rispondono a una esigenza fondamentale che è quella di alimentare il vincolo solidaristico dell’organizzazione criminale. Una mafia dunque tutt’altro che sconfitta che si nutre – come emerge dalla lettura delle intercettazioni dell’inchiesta di Palermo – di legami e complicità collusive con esponenti di quell’area grigia popolata da professionisti, politici, imprenditori, nei cui confronti sembra ancora molto debba essere fatto per contrastarla.
Vi è infine un ultimo dato – solo indirettamente legato alla vicenda attuale – che suggerisce di considerare il quadro complessivo con più preoccupazione e che riguarda l’attuale crisi dell’antimafia sociale. In questa sede non è possibile approfondire la questione. Un’immagine però forse più delle parole rende il senso di questo concetto. Fino a qualche anno fa, all’indomani della cattura di boss ed esponenti mafiosi, una piccola folla di cittadini era solita radunarsi spontaneamente davanti la Questura o il Comando dei Carabinieri per celebrare le forze dell’ordine. Non il 5 dicembre 2018. Davanti la Caserma di Piazza Verdi, alle spalle del teatro Massimo di Palermo, gli arrestati sfilavano a testa alta, salutando gli amici e i parenti che erano accorsi sul posto.
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