Quello di Welfare è un concetto nato in Gran Bretagna in piena Seconda guerra mondiale, sull’onda di ben due Rapporti di commissioni parlamentari presiedute da William Beveridge (che sarebbe diventato sir poco dopo, nel 1945). Lo scopo era, per l’immediato, «fidelizzare» la popolazione inglese alla democrazia e consolarla delle durezze della guerra (il Warfare); nel più lungo periodo, costruire uno Stato sociale che si prendesse cura del benessere dei cittadini, li rendesse più felici ed evitasse quindi, dopo la conclusione del conflitto, lo scoppio di una terza guerra mondiale: chi è sereno che motivo ha di andare in guerra? (Con la possibile eccezione di alcune beghe interne alla politica italiana, beninteso.)

Tentativo nobile e sostanzialmente riuscito fino a oggi, ma che si basava su un presupposto troppo spesso dimenticato e che vale la pena riprendere direttamente dalle parole del Rapporto del 1942:

Il piano di sicurezza sociale è diretto ad assicurare che ogni individuo, a condizione che lavori fin tanto che può, e che versi contributi detraendoli dai suoi guadagni, abbia un reddito sufficiente per assicurare a sé ed alla propria famiglia una sana sussistenza, un reddito che lo sollevi dal bisogno al momento in cui per qualsivoglia ragione egli non possa lavorare e guadagnare. Oltre al reddito di sussistenza, la relazione propone sussidi per l’infanzia in modo da assicurare che nessun bambino debba mai trovarsi in condizione di bisogno, e ogni specie di assistenza sanitaria per tutte le persone in caso di malattia, senza alcun pagamento all’atto della prestazione dell’assistenza stessa così da evitare che alcuno debba soffrire perché non ha i mezzi necessari per pagare il medico o l’ospedale
[corsivo mio].

L’ambizioso progetto si è rapidamente esteso dalla Gran Bretagna agli altri Paesi sviluppati, Italia compresa, ma comincia adesso a mostrare crepe profonde. I motivi principali della crisi sono, a mio avviso, cinque, collegati tra di loro.

Costi. I costi del Welfare sono elevatissimi. In Italia, ad esempio, la spesa sociale, trascurabile fino alla Seconda guerra mondiale (appunto), aveva già raggiunto il 17% del Pil nel 1990, ed è oggi (2016) quasi al 30%, leggermente superiore a quella del resto dell’Europa, pari al 28,6% (Eu27, con dati tratti dal database di Eurostat, salvo diversa indicazione). Chi paga? I cittadini, con le tasse, la cui incidenza sul Pil è da noi arrivata al 43%, e al 40% in Europa: un livello unanimemente considerato troppo alto.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 5/18, pp. 742-749, è acquistabile qui]