L’Italia potrebbe essere investita a breve da un profondo cambiamento nell’organizzazione e nel finanziamento di gran parte dei suoi servizi pubblici, con il decentramento ad alcune regioni tanto di estese competenze quanto di risorse finanziarie assai ingenti (sottratte conseguentemente a tutte le altre). Ma questo tema, di fondamentale importanza e su cui è indispensabile una approfondita discussione culturale e politica, è avvolto nel più totale silenzio.
È comprensibile che la Lega, promotrice e sostenitrice di questo processo, preferisca perseguirlo silenziosamente: sta cercando infatti di acquisire consensi al di là delle sue tradizionali regioni di insediamento, e certo una discussione pubblica non le gioverebbe: farebbe emergere un consistente travaso di risorse finanziarie a favore di Lombardia e Veneto in particolare e a danno di tutte le altre. Quel che colpisce è il totale silenzio degli altri partiti. Di quelli di opposizione, in particolare del Partito democratico: evidentemente incapace di prendere una posizione pubblica; segno, anche questo, della profondissima crisi politica e di valori di riferimento che ne sta paralizzando l’azione. E dei 5 Stelle: che pure dalle regioni del Centro Sud che sarebbero pesantemente penalizzate da questo processo hanno tratto una parte decisiva del loro consenso. Allo stesso modo, totale è il silenzio dei grandi mezzi di informazione, a stampa e radio-televisivi.
La questione in ballo è quella della maggiore autonomia che può essere concessa alle regioni a statuto ordinario
Eppure di vicende da raccontare e di temi di cui discutere ce ne sono tanti. La questione in ballo è quella della maggiore autonomia che può essere concessa alle regioni a statuto ordinario. Come ha convincentemente argomentato su queste colonne Marco Cammelli, “l’art. 116.3 Cost è uno strumento di rifinitura, di messa a punto di quote di decisione e di funzioni aggiuntive ritagliate su misura sulle specifiche esigenze di singole realtà regionali”. Tuttavia, come anche lo stesso Cammelli ha messo in luce, non è questo il tema dell’attualità politica. Come si ricorderà, Veneto e Lombardia hanno chiamato in autunno i propri elettori a condividere una richiesta referendaria di maggiore autonomia, tutta giocata su temi politici e sull’obiettivo prevalente di ottenere, insieme alle competenze, risorse aggiuntive: tanto che era stato definito da chi scrive, sempre su queste colonne, come un referendum contro l’unità nazionale; e poi il suo esito “un salto nel buio”.
Dopo una prima intesa raggiunta con il governo Gentiloni qualche giorno prima delle elezioni, la Regione Veneto è tornata alla carica con il nuovo governo, visto l’esito elettorale particolarmente favorevole per i suoi propositi. I capisaldi della proposta della Regione sono tre.
- Sotto il profilo dei contenuti, la cessione alla Regione di tutte le competenze possibili nell’attuale quadro costituzionale: dalla scuola alle infrastrutture, dalla previdenza complementare alle grandi infrastrutture; tale da mettere in discussione programmazione e gestione nazionale di tutti i grandi servizi pubblici;
- Sotto il profilo finanziario, un metodo di calcolo delle risorse che lo Stato dovrebbe trasferire al Veneto particolarmente favorevole: basato non sulle risorse oggi utilizzate per garantire quei servizi, ma, in misura importante, sul gettito fiscale regionale; tale da comportare una rilevante redistribuzione di risorse pubbliche da tutti gli altri cittadini italiani a favore dei cittadini del Veneto;
- Sotto il profilo del metodo, l’approvazione da parte del Parlamento di una legge delega al Governo per la definizione di contenuti e risorse, da meglio precisare grazie all’azione di una commissione tecnica mista Italia-Veneto; tale da espropriare il Parlamento dalla propria potestà decisionale.
Nel silenzio di partiti e mezzi di informazione, la Regione si confronta con il governo, rappresentato dalla ministra per gli Affari regionali Erika Stefani, anch’essa veneta e leghista (il suo profilo Twitter è sormontato da un Leone di San Marco), che ha espresso da subito la sua condivisione per le proposte regionali. Il 30 agosto il vice presidente Salvini ha dichiarato ai microfoni di Radio Padova che il Consiglio dei ministri è pronto a dare un immediato via alla richiesta veneta: “Io non la discuto nemmeno”. Sulla posizione della Lega non c’erano dubbi; si raggiungerebbe infatti un obiettivo storico, perseguito con coerenza da oltre vent’anni all’insegna del “prima il Nord”: quello di garantire maggiori risorse pubbliche e maggiore autonomia al Lombardo-Veneto.
Ma non dovrebbe essere così per le altre forze politiche e soprattutto per la stragrande maggioranza degli italiani: parte in causa e vittime predestinate di questo processo, che provocherebbe uno strappo di grandi proporzioni nel tessuto del paese. Appare indispensabile (e per questo è stata avviata anche una raccolta di firme) che la questione sia oggetto di una profonda discussione nel Paese; che il Parlamento conservi tutti i suoi poteri; e che la soluzione non configuri quella che è definibile come una vera a propria “secessione dei ricchi”.
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