Di regionalismo differenziato, cioè della possibilità che leggi dello Stato riservino un trattamento particolare a una singola regione distinguendola dalle altre a statuto ordinario (per quelle a statuto speciale è un’altra storia), si è parlato poco; un po’ perché l’iniziativa delle regioni proponenti ha molto enfatizzato il piano squisitamente politico (vedi i referendum di Lombardia e Veneto), e un po’ per la modestia dei contenuti e delle innovazioni richieste. Se le cose stessero solo così le domande da porsi sarebbero più d’una, perché su questi terreni e in questi tempi i simboli contano quanto e più della sostanza; perché una volta avviate dinamiche di questa natura non è detto che non sfuggano di mano e perché è chiaro che differenziare per gruppi di regioni non è la stessa cosa che farlo per una sola, anche per l’inevitabile allineamento che comporta tra i proponenti della differenziazione. Il che giustificherebbe qualche interrogativo aggiuntivo sulla posizione della regione Emilia-Romagna.
Il tema non va affatto sottovalutato, specie ora che trova disponibilità nel nuovo governo. Se viene portato avanti, malgrado l’oggettiva limitatezza di contenuti, il rischio è che le finalità non siano chiare o che ne restino sottovalutate le implicazioni. Due elementi che consiglierebbero il massimo della prudenza, come di recente in sede scientifica più d’uno ha sottolineato (v. "le Regioni", 4/2017). Ma procediamo con ordine.
La modesta, finora, portata del processo che si è avviato è dovuta sia a ragioni di contenuto sia al complesso attuale delle relazioni Stato-Regioni
La modesta, finora, portata del processo che si è avviato è dovuta sia a ragioni di contenuto, perché i trasferimenti previsti riguardano funzioni già oggi esercitate dalle regioni, sia al complesso attuale delle relazioni Stato-Regioni perché, tra riserve costituzionali di portata trasversale (come l’ordinamento civile o tutela della concorrenza) e principi generali elaborati dalla Corte Costituzionale (dalla collaborazione alla sussidiarietà), i vincoli quotidiani all’autonomia regionale sono ben maggiori di quelli – specifici e legislativi – che l’apposita legge statale (ex art. 116.3 Cost.), per “rinforzata” che sia, potrebbe rimuovere. Se poi vogliamo parlare dei vincoli fattuali, pesanti e pervasivi, derivanti da serie e note disfunzioni di sistema (spesa pubblica, controlli, contenzioso, vecchi ritardi e nuove trasparenze, e altro) degli apparati e degli organismi centrali, è evidente che di questi o ci si libera per tutti con interventi sul centro, che da almeno un ventennio latitano, o non si libera nessuno, quale che sia il grado formale di autonomia che gli è o sarà riconosciuto.
I più smaliziati suggeriscono che l’obbiettivo sia più prosaico, solo e squisitamente di risorse finanziarie aggiuntive, ma anche questo non dice molto perché, come è stato osservato (Falcon), se è relativamente semplice ottenere nuove risorse per il trasferimento di nuove funzioni, non è facile ottenere altrettanto per l’impalpabile riconoscimento di “più autonomia” nell’esercizio di quanto già si ha. Fin qui, grandi manovre per risultati incerti e modesti. Se invece prendiamo la cosa sul serio e ci spostiamo sul terreno politico-istituzionale, lo scenario cambia radicalmente: crescono i dubbi e con ogni probabilità dall’inutile si passa al dannoso. L’idea che ogni regione pattuisca trasferimenti confezionati su misura sarebbe di per sé ineccepibile in un paese lungo e diverso come l’Italia, all’interno di una cornice solida e riconoscibile (oggi assente), dove il centro è il punto di sintesi, non come vertice degli apparati pubblici, ma in quanto garante delle funzioni indivisibili del sistema e della sua unitarietà. Ma, come tutti sanno, non è così. Mezzo secolo di ordinamento regionale (ordinario) dimostra che il sistema è accentrato, ma ha un centro debole, e che senza integrali e preliminari riforme del suo funzionamento il distacco di quote di funzioni per aree territoriali circoscritte non porta al decentramento per alcuni, ma allo sgretolamento per tutti, perché introduce l’esigenza di modularità e interlocuzioni differenziate che questo centro, oggi in evidente difficoltà anche solo per l’amministrazione ordinaria, non è in grado di assicurare.
Se invece prendiamo la cosa sul serio e ci spostiamo sul terreno politico-istituzionale, lo scenario cambia radicalmente: crescono i dubbi e con ogni probabilità dall’inutile si passa al dannoso
Altrettanto dubbia è l’auspicata utilità finanziaria perché o il discorso è specifico e correlato al nuovo assetto che si intende costituire, e già si è visto che si tratta di aggiunte limitate, la cui messa a regime potrebbe in astratto portare anche a risparmi, oltre che a maggiori spese, oppure si tratta semplicemente di rivendicare nuove risorse, ma allora il tema è un altro. Nelle condizioni attuali ha poche prospettive e comunque l’art. 116.3 non c’entra. A meno che l’obbiettivo strategico non sia proprio quello di forzare e, strada facendo, di ampliare materie e funzioni – di prendere, cioè, distanza da una realtà nazionale fatta di un centro debole e di tanti sistemi locali in difficoltà, rivendicando il diritto di andare per conto proprio, di dare voce a proprie realtà robuste e in grado di competere nelle relazioni transnazionali.
Se così fosse, e senza neppure affrontare il tema di processi di imitazione che potrebbero facilmente innescarsi da parte di regioni tutt’altro che solide, il discorso si farebbe ancora più serio sul piano fattuale e su quello simbolico. Sul primo, il sistema di relazioni centro-periferia, già ora incerto e segnato da sovrapposizioni e profonde distanze, non si vede come possa reggere sommando alla frammentazione del centro e dei suoi apparati la complessità di un ordinamento regionale composto da cinque regioni a statuto speciale e almeno tre (solo?), di peso non proprio trascurabile, a regime differenziato. A tutto questo vanno poi aggiunte le regioni meridionali che in molti settori sono rette da regimi – nazionali e europei – speciali e il Lazio, da sempre una regione sui generis per definizione. Di ordinario, dunque, resta poco, con il risultato paradossale di una differenziazione non per propria richiesta (ex art. 116.3) ma di risulta, aggravata dal prevedibile sfilacciamento delle attuali (e deboli) sedi unitarie con funzione di cerniera (conferenze permanenti) e dallo stillicidio particolaristico che da sempre accompagna, in sedi separate e fuori dal necessario controllo, i singoli processi di trasferimento. A tutto questo si aggiunge l’effetto moltiplicatore del complessivo alleggerimento del prelievo fiscale contenuto nel contratto di governo; perché, se è incerto quanto di questo le tre regioni ex art. 116.3 Cost. riusciranno a trattenere nel proprio territorio, è certo invece che sarà il terreno dei trasferimenti a fini perequativi per le regioni più svantaggiate il primo a soffrirne.
Veniamo così al significato e alla lettura che di tutto questo va data, indipendentemente dall’esito. Su quest’ultimo va messa in conto fin d’ora la straordinaria capacità del sistema amministrativo centrale di difendere con successo le proprie prerogative o, in subordine, almeno le proprie risorse a prescindere dai compiti rimasti, come fin qui spesso è avvenuto. Ebbene, il segnale che la parte più avanzata delle regioni italiane dà con questa operazione rischia di essere terribilmente netto: se per decenni non si è riusciti a fare passi avanti per tutti, almeno non si impedisca di farli fare a chi ha gambe sufficienti per camminare.
Si dirà che non è solo questo e che non si vogliono mettere in discussione i fondamentali, ma resta il fatto che questa è la lettura oggi più attendibile, con l’aggravante che la strada imboccata difficilmente porterà a qualcosa di buono. L’art. 116.3 Cost è uno strumento di rifinitura, di messa a punto di quote di decisione e di funzioni aggiuntive ritagliate su misura sulle specifiche esigenze di singole realtà regionali. Ma, proprio per questo, presuppone un impianto generale solido e riconoscibile basato su un centro in grado di garantire funzioni strategiche e di sistema, comunicazioni e standard, sedi collaborative, azioni di supporto alle realtà più deboli di cui i trasferimenti a finalità perequativa sono solo una parte. Se viene usato, peraltro, o è inefficace o è rischioso, molto rischioso.
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