Il governo delle larghe intese populiste (leghiste e pentastellate) si è formato dopo 88 giorni di giravolte, tranelli, tormenti. Tutto ciò – a cui non è stata estranea la determinazione renziana nel far fallire l’incarico che Mattarella aveva dato al presidente della Camera Fico perché cercasse un accordo con i democratici – rende ancora più illuminante l’analisi di Carlo Trigilia della crisi del Pd, di cui è ormai impossibile sottovalutare la gravità. Il voto del 4 marzo ha mostrato quanto, in condizioni irripetibili ed estremamente favorevoli – con Berlusconi e il centrodestra rimasti per anni disorientati dagli eventi successivi al 2011 e con la ripresa economica finalmente attiva – un intero patrimonio politico sia stato dilapidato. Le responsabilità non sono ovviamente tutte di Renzi e della sua gestione, vengono anzi da molto lontano, ma Renzi ci ha messo un carico da novanta e anche ora schernisce i preoccupati delle implicazioni della personalizzazione sulle sorti del Pd attribuendo alla “spersonalizzazione” il suo misero 18%. Trigilia ci invita a considerare come la catastrofica perdita elettorale del Pd tra i gruppi maggiormente disagiati, non compensata da un parallelo incremento di favore tra i nuovi ceti medi, non possa essere interpretata come semplice manifestazione della tendenza all’indebolimento dei partiti socialdemocratici tradizionali presente in tutta Europa, o come sola reattività a fenomeni più generali quali la globalizzazione, l’austerità europea, l’immigrazione.
Bisogna risalire alla discrasia tra le “domande” di una popolazione ferita dalla diminuzione del reddito in conseguenza di una crisi che ci ha colpito più gravemente che altrove, la disoccupazione, la recrudescenza delle diseguaglianze sociali e territoriali, e l’“offerta” – in termini di politiche, di linguaggi, di attenzione, di simboli – che il Pd ha saputo (o voluto) fornire in risposta. Un’“offerta” contrassegnata sul piano degli strumenti da una fascinazione per il modello della democrazia maggioritaria – ancora valido, a mio parere, per modellare il bipolarismo a livello elettorale e salvarci dagli esiti a cui conduce un sistema proporzionale del tipo del nefasto Rosatellum – anche nella gestione interna del partito: da qui la “rottamazione”, il decisionismo (con una interpretazione della primarie come mezzo per individuare “chi deve guidare, senza freni e intralci, partito e governo”, molto diversa da quella dell’Ulivo e di Prodi, assai più attenti al rispetto reciproco, alla ricerca della sintesi, all’integrazione fra culture), la personalizzazione della leadership funzionale, la “disintermediazione” e lo svilimento dei corpi intermedi, specie dei sindacati, lo svuotamento e la desertificazione delle sedi di discussione, di elaborazione, di riflessione. Sul piano dei contenuti l’“offerta” del Pd è stata contrassegnata da uno spirito sostanzialmente pro business a favore del mondo imprenditoriale, che ha portato ad affidare il rilancio dello sviluppo prevalentemente all’industria del Nord, lasciando ai margini il Mezzogiorno: da qui la preminenza attribuita al mercato, la flessibilizzazione ad oltranza del mercato del lavoro e del costo del lavoro (con il Jobs Act e l’allargamento dei contratti a termine destinati ad alimentare la precarietà), la retorica della liberazione delle imprese da ogni vincolo, mentre i ceti medi sono stati compensati con una selva di bonus, tra cui gli 80 euro, dagli esiti incerti e controversi, il tutto motivato con il ritorno a un blairismo in realtà ormai obsoleto e usurato, di cui la terribile crisi del 2007/2008 aveva già decretato la irrimediabile fallacia.
Questo è il punto che considero cruciale e sul quale mi interessa concentrare l’attenzione. Lo slittamento dell’asse teorico e pratico del Pd è molto profondo, non attiene soltanto al pur grave invio in soffitta della concertazione (e io, che da parlamentare ho seguito tutto l’iter della riforma pensionistica 335 e, da sottosegretario di Ciampi al Tesoro, ho guidato la delegazione governativa che trattò con i sindacati la riforma Prodi delle pensioni del 1997, ne ho vissuto dal vivo l’inestimabile valore). Lo slittamento ha origini lontane, numerose tracce ce ne erano nei partiti fondatori del Pd, non ultimi nei Ds, e soprattutto nell’equivoco originario, mai chiarito, per cui si assumeva implicitamente che “partito a vocazione maggioritaria” significasse “partito spostato verso il moderatismo”. Ma negli ultimi anni lo slittamento è stato spinto fino a soglie prima non toccate, in particolare alla dichiarazione di avvenuto superamento della discriminante destra/sinistra, senza avvedersi che privarsi della possibilità di “discriminare” equivale a privarsi della possibilità di pensare, ideare, progettare. Come spiegarsi altrimenti il fatto che ciò che più è mancato al Pd odierno non è tanto l'adeguatezza di molte misure governative, che indubbiamente c’è stata specie con il governo Gentiloni, ma la capacità e lo spirito del progetto sorretto da un grande slancio ideale? Valgano per tutti due esempi.
Oggi discutiamo della pericolosità della flat tax (per le inaudite perdita di gettito e alterazione della distribuzione del reddito a ulteriore favore dei ricchi e a danno dei ceti medi che opera) e della sua incompatibilità con il “reddito di cittadinanza”, che non a caso il governo Lega/5 Stelle sembra già rinviare alle calende greche. Ma Renzi non ha mai fatto mistero di prediligere il mantra della riduzione delle tasse, indifferente al fatto che esso restituisse attualità al motto starving the beast, “affamare la bestia governativa”, sottraendogli le risorse necessarie a finanziare servizi pubblici e prestazioni sociali, un’espressione che entrò in auge all’epoca di Reagan, quando nella cerchia dei consiglieri repubblicani nessuno credeva che i tagli fiscali del 1981 potessero essere finanziariamente sostenibili (e in effetti non lo furono), ma si consideravano i tagli stessi come mezzi per formare disavanzi tali da affamare il bilancio pubblico e abbattere la spesa. Il tutto nella più classica logica ostile all’esercizio della responsabilità collettiva incarnata dalle istituzioni pubbliche: “meno tasse, meno regole, meno Stato, più mercato”, associando l’idea che la tassazione sia intrinsecamente dannosa alla volontà di ridurre al “minimo” il ruolo degli Stati e dei governi. Così, però, il disorientamento culturale che scaturisce dalle visioni neoliberiste, di cui è figlia la flat tax, non è stato combattuto e, anzi, si è lasciato che un dibattito meditato sulla tassazione scomparisse dalla scena pubblica. L’inerzia di una riflessione pubblica sulla tassazione, a sua volta, ha prodotto quel fenomeno generalizzato per cui le scelte di politica fiscale non sembrano più appartenere alla discriminante destra/sinistra: da entrambi i lati appare dominante un unico slogan, diminuire le tasse. Alla fine si perde di vista che il significato e il ruolo della tassazione non sono valutabili in se stessi, ma si commisurano anche e soprattutto al livello e alla qualità dei servizi di cui una società desidera disporre, i quali a loro volta, esprimono la qualità e la natura dei “beni collettivi” e dei “legami di cittadinanza” propri di quella stessa società.
Il secondo esempio è ancora più importante, concernendo il lavoro e gli investimenti pubblici. Infatti, di fronte alla persistente “trappola della bassa crescita” a cui l’Italia si è trovata esposta, alla necessità di riprogettare un intero modello di sviluppo a partire dalla riqualificazione ambientale e territoriale, allo scandalo di una disoccupazione giovanile ancora superiore al 30%, sarebbe stato necessario mettere in essere investimenti pubblici straordinari, non ordinari investimenti generici, e questo su scala europea, rilanciando su un piano più nettamente valoriale l’idea di Europa. La convinzione che decisivi siano proprio gli investimenti pubblici in quanto tali, specie in un’epoca di bassi tassi di interesse, è stata ribadita da Larry Summers e da tutti quelli che non considerano scomparsi i rischi di secular stagnation.
D’altro canto, si è rivelata un’illusione la speranza nutrita dal Pd di Renzi di affrontare le vere e proprie emergenze italiane – anche sul piano democratico, dato il dilagare dei populismi – con strumenti quali stimoli fiscali, incentivi indiretti orizzontali, misure per le liberalizzazioni e per la competitività, in omaggio alla convinzione che il governo debba essere “neutrale” rispetto all’andamento dell’innovazione e debba astenersi dal “dirigere” alcunché o con la litania della riduzione del costo del lavoro e dell’aumento dell’occupabilità dei lavoratori. Anche il Pd ha preferito rimanere succube di una sorta di supply side economics (economia dal lato dell’offerta) di cui è campione la destra, come ci mostra il privilegiamento della flat tax del governo appena insediato, una supply side che, considerando il settore privato naturalmente in grado di generare il mix ottimale di risparmio e di investimenti, vede i disavanzi del settore pubblico e le relative spese pubbliche “spiazzanti” l’investimento privato e per questo prescrive all’operatore pubblico di astenersi il più possibile dall’intervenire in modo palese, salvo lasciargli molte forme “nascoste” di intervento.
Vi concorre anche una lettura della rivoluzione tecnologica in corso come “guidata dall’offerta”, un’offerta che, lungi dal dover essere sollecitata o tanto meno indirizzata – ma “dirigere” l’innovazione era, invece, il monito del grande economista Tony Atkinson! –, avrebbe bisogno solo di incontrare il suo consumo, per cui l’unica cosa che conta è dare incentivi indiretti alle imprese e potere d’acquisto (cioè trasferimenti monetari e bonus) ai consumatori. Il voto del 4 marzo ci ha detto a quali esiti portano una simile tradizionalità e inerzia progettuale e culturale, a dispetto della retorica nuovista. L’urgenza di costruire un’alternativa alla deriva leghista e pentastellata ci dice di quale innovatività e dinamismo ha bisogno la rinascita del Pd, certo non racchiusa nell’evocazione di un indistinto “repubblicanesimo” di stampo macroniano.
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