Si ha un bel dire, come ha fatto il premier spagnolo Mariano Rajoy, che il referendum catalano non c’è stato. Giuridicamente è così: quella che si è svolta ieri è una consultazione di fatto, svoltasi fuori da qualsiasi controllo, e non per colpa degli indipendentisti. Per di più, il risultato finale – due milioni duecentomila elettori, con il novanta per cento a favore del sì – non ha neppure raggiunto la soglia psicologica della metà più uno dei catalani favorevoli alla secessione. Ma il punto è che se, come ha mostrato l’imbarazzante discorso di Rajoy, il governo spagnolo non ha un piano B che non sia l’invio della Guardia Civil, allora la convulsa giornata di ieri segna un punto decisivo a favore degli indipendentisti. Ci fosse scappato il morto, la secessione sarebbe già un fatto compiuto.
In attesa dello sciopero generale di domani e della probabile dichiarazione di indipendenza da parte del Parlamento catalano, chiediamoci come si sia arrivati a questo punto. Per noi italiani, la questione catalana evoca immediatamente la questione padana, oggetto di un referendum consultivo per l’autonomia, dichiarato dalla Lega con l’acquiescenza di Pd e M5S, che costerà al contribuente cinquanta milioni di euro. Ma a differenza della Padania la Catalogna è davvero una nazione, con una storia, una lingua. E un’economia che produce un quinto del Pil spagnolo. (In più, i catalani sono maledettamente simpatici: almeno a chi tifa Barça, almeno dai tempi di Johann Crujiff).
La questione catalana, dunque, è più simile a quella dell’indipendenza della Scozia: altra nazione storica, confluita nel Regno Unito solo all’inizio del Settecento, e anch’essa percorsa dai venti della secessione. Proprio il paragone con la Scozia, però, spiega perché la questione catalana rischia di esplodere nelle mani del governanti spagnoli e catalani. Il Regno Unito ha permesso agli scozzesi di pronunciarsi sulla loro indipendenza, ottenendone la risposta più prevedibile, almeno prima della Brexit: una sensibile maggioranza a favore dell’unione. In Catalogna, invece, le cose sono andate molto diversamente.
Da decenni i deboli esecutivi spagnoli contrattano la maggioranza in Parlamento con gli indipendentisti catalani, di destra e di sinistra, che alzano progressivamente il prezzo del loro sostegno senza ottenere un’autonomia paragonabile a quella dei Paesi baschi. Di errore in errore si è giunti così allo psicodramma di ieri, determinato dal tentativo di entrambe le parti di decidere la questione con una spallata. Come molti hanno notato, infatti, sino a ieri i catalani chiedevano solo l’autonomia, ottenuta dai Paesi baschi al prezzo di decenni di terrorismo. Solo l’atteggiamento miope e autoritario del governo centrale li ha spinti verso un’indipendenza, che potrebbero ottenere solo approfittando di un momento irripetibile, come nel caso della Brexit per il Regno Unito.
L’unica strada costituzionale percorribile, che sia politicamente e giuridicamente legittima, è un’altra, e dopo la consultazione di ieri appare più stretta di quella che si sta percorrendo. Questa strada non passa dai tentativi di spallate, da una parte e dall’altra, ma dalla via maestra di una riforma costituzionale. Le maggiori forze politiche spagnole potrebbero smetterla di fare accordi separati con gli indipendentisti e accordarsi su un cambiamento in senso federale della Costituzione del 1978, che dia alla Catalogna tutta l’autonomia possibile. A questo punto la riforma potrebbe persino prevedere la possibilità di un vero referendum per l’indipendenza: permettendo così ai catalani di decidere a mente fredda fra la certezza dell’autonomia e gli azzardi della secessione.
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