Il referendum consultivo «per l’autonomia» che si dovrebbe tenere in Lombardia e in Veneto il 22 ottobre prossimo è una preoccupante iniziativa politica, volta a sollecitare forme di egoismo territoriale, contro la quale sarebbe opportuno esprimersi, specie nei territori coinvolti, in modo chiaro.
Il quesito che dovrebbe essere sottoposto al voto in Lombardia recita così: «Volete voi che la Regione Lombardia, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma della Costituzione?». Esso sovrappone e mescola due questioni.
La prima è l’attribuzione di ulteriori forme di autonomia alle regioni. All’articolo 116 della Costituzione si prevede che con legge dello Stato possano essere attribuite alle regioni a statuto ordinario «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», rispetto alla vasta lista delle materie a legislazione concorrente (terzo comma dell’articolo 117), e all’organizzazione della giustizia di pace, alle norme generali sull’istruzione e alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. È un bene un maggior decentramento di poteri verso alcune regioni? In passato, al tempo delle proposte di «devolution», era diffusa l’opinione che ogni ulteriore trasferimento di competenze alle regioni sarebbe stato opportuno. Nel periodo più recente si è invece diffusa la valutazione che, anche per le cattive prove fornite dalle amministrazioni regionali (anche quelle interessate dal referendum), sarebbe invece meglio ricentralizzare alcune competenze.
Ciò che forse abbiamo imparato da quasi vent'anni di confusa discussione sul "federalismo" è che un approccio ideologico, aprioristico, non porta lontano
La riforma costituzionale respinta dagli elettori il 2 dicembre prevedeva ad esempio di estendere significativamente la lista delle materie a competenza esclusiva dello Stato e di cancellare quelle a competenza concorrente, ritenute fonte di contenziosi e incertezze. Ciò che forse abbiamo imparato da quasi vent'anni di confusa discussione sul «federalismo» è che un approccio ideologico, aprioristico, non porta lontano. Si può pensare a ulteriori forme di autonomia. Occorre però riflettere con attenzione su benefici e costi di avere un Paese con competenze diverse da caso a caso, sull’efficacia delle grandi politiche pubbliche e sull’equità fra i cittadini; e prima di pensare ad aumentare i poteri di alcune regioni a statuto ordinario sarebbe opportuno eliminare quelle a statuto speciale, fonti di distorsioni e ingiustificate disparità.
In ogni caso, l’opportunità di un ampliamento dei poteri regionali (già notevoli) dipende in maniera cruciale dalla specifica materia; in alcuni casi si può valutare (ad esempio perché la regolazione regionale, più vicina ai cittadini, è più efficiente o efficace di quella nazionale; o perché le condizioni e le preferenze sono assai diverse fra regioni), in altri va certamente evitata (perché è meglio conservare una regolazione centrale, perché è opportuno mantenere uniformità nelle prestazioni, o perché sono prioritari obiettivi e poteri nazionali). Senza sapere di che si tratta, per un cittadino lombardo o veneto è difficile avere un’opinione sensata a riguardo. D’altra parte l’articolo 116 prevede già che le regioni possano prendere l’iniziativa per richiedere maggiori dosi di autonomia, sentiti gli enti locali, senza alcun bisogno di referendum. Volendo, si potrebbe sottoporre ai cittadini l’intesa raggiunta: ma votare prima, a scatola chiusa, ha poco senso.
I presidenti leghisti della Lombardia e del Veneto sono espliciti: il vero obiettivo dell’iniziativa è ottenere maggiori risorse pubbliche rispetto alla situazione attuale
Ma allora perché si vota? Il punto, e la preoccupazione, sta in quel piccolo inciso all’interno del quesito: «con le relative risorse». I presidenti leghisti della Lombardia e del Veneto sono espliciti: il vero obiettivo dell’iniziativa è ottenere maggiori risorse pubbliche rispetto alla situazione attuale; il referendum serve a ottenere sostegno politico per questa richiesta. Si dice: per trattenere sul suolo regionale una maggiore quota delle tasse pagate dai cittadini. Ma le regole della tassazione e dell’allocazione della spesa nel nostro paese sono stabilite dai grandi principi costituzionali: ad esempio, la progressività della tassazione e l’istruzione obbligatoria e gratuita. Con l’approvazione della legge 42 del 2009, poi, si è provveduto a precisare, in diversi ambiti, questi principi (legge che, sia detto per inciso, sta avendo un’applicazione assai lenta, e estremamente discutibile in alcune scelte attuative). Con buona pace dei leghisti di ieri e di oggi, non esistono «soldi del Nord» che vengono sottratti: il «residuo fiscale» che si può stimare (la differenza fra le tasse pagate dai cittadini di una regione e la spesa pubblica che ricade in quella stessa regione) è semplicemente l’esito ex post, in Italia come in tutti gli altri paesi, dell’applicazione delle norme costituzionali in presenza di differenze territoriali nei redditi. Il tentativo del referendum, dietro le richieste di maggiore autonomia, è quello di ottenere dallo Stato l’allocazione, in via preventiva, di maggiori risorse. Naturalmente, sottraendole a tutti gli altri cittadini italiani. È una evidente scelta politica che si colloca nella tradizione leghista; nel dilagante «egoismo dei ricchi»: date più soldi pubblici a noi e meno agli altri.
Il voto serve dunque a portare tanti lombardi e veneti a esprimersi sulla domanda implicita: volete sottrarre risorse pubbliche agli altri cittadini italiani per beneficiarne voi? Una deriva assai pericolosa. Dispiace che il sindaco di Milano (già paladino della riforma costituzionale), sostenga che «se si farà il referendum io consiglierò di votare positivamente». Forse perché non è al corrente delle motivazioni politiche per cui è stato deciso? O forse perché ritiene che sostenere un’iniziativa che potrebbe forse portare più risorse alla sua città (anche se a spese delle altre) sia coerente con l’essere il sindaco della «capitale morale» d’Italia?
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