Il volume curato da Matthias Matthijs e Mark Blyth, The Future of the Euro, mette assieme contributi politologici (e in particolare di political economy) di alto livello per quella che è una valutazione scrupolosa e al contempo amara della crisi dell’euro. Il messaggio centrale del libro è chiaro: nonostante i salvataggi e le riforme istituzionali intraprese finora, la crisi dell’euro è destinata a durare ancora lungo a causa della mancanza di quell’impegno politico che storicamente si è dimostrato necessario per il successo di un’unione monetaria.

I contributi del volume sono scritti in larga parte da studiosi europei che hanno trovato dimora accademica negli Stati Uniti, e che quindi possiedono un certo distacco analitico nei confronti della crisi – merce sempre più rara negli ultimi anni, che hanno visto molti studiosi del continente arroccarsi nelle rispettive comunità epistemiche nazionali incoraggiando pregiudizi come ad esempio quello sul «cuore di pietra» degli Stati del Nord e l’immoralità di quelli del Sud. Questi stereotipi si sono aggravati con l’avanzare della crisi e hanno acuito quelle fratture tra Stati membri che il progetto della moneta unica avrebbe dovuto invece sanare.

La posizione epistemologica degli autori aggiunge ulteriore valore al libro: tutti appartengono alla scuola dell’istituzionalismo storico, la quale sottolinea l’importanza degli eventi passati per il dispiegarsi di quelli futuri, nonché l’importanza di analisi multicausali che tengano conto di fattori economici, politici, sociali e culturali. È un movimento, questo, che si sposta in direzione opposta all’odierna iper-specializzazione delle scienze sociali – la quale probabilmente costituisce essa stessa una delle cause della crisi economica e politica dell’Europa.

Il libro si schiera a favore di un embedding di stampo polanyiano delle istituzioni economiche e fiscali dell’euro. Questa conclusione è però derivata empiricamente e non attraverso un allineamento teorico a priori. Eccezionale, in questo senso, è il capitolo di apertura di Kathleen McNamara, che esamina le unioni monetarie succedutesi nel corso della storia e da cui è possibile estrapolare una serie di requisiti minimi necessari per un’unione monetaria efficace. Sorprende – o forse no? – che l’euro non presenti alcuno di questi prerequisiti. Molto efficaci sono anche le analisi di singoli Paesi membri dell’euro, in particolare Germania, Francia, Spagna e Italia, in cui si leggono attente ricostruzioni degli anni 2009-2013, oltre a riflessioni minuziose su come le scelte di questi Paesi siano state influenzate da un insieme di fattori contingenti economici, culturali ed elettorali.

Perché l’Europa sembra dipendere così tanto dalla Germania nel trovare una soluzione alla sua crisi? Il libro evidenzia come, già a partire dalla sua riunificazione, la Germania sia diventata egemone nel continente, non solo grazie all’inclusione in blocco di 20 milioni di tedeschi dell’Est, ma anche perché nello stesso periodo altri Paesi della zona euro hanno subito un declino di influenza politica ed economica. La Francia, per esempio, è passata da una condizione di superiorità continentale a essere stretta tra l’austerità del Nord e le tendenze neo-keynesiane del Sud. Allo stesso modo, il libro sviscera i meccanismi attraverso cui la Spagna si è rapidamente trasformata da enfant prodige a «bambino problematico», e come la crisi abbia tenuto l’economia italiana in una morsa strettissima a causa del prosciugamento della liquidità disponibile nella sua economia.

Eppure la Germania non riesce a condurci fuori dalla crisi a causa di una complicata sequenza di eventi storici: la riunificazione è stata un fardello enorme seguito da una lenta crescita, un’elevata disoccupazione e grandi trasferimenti da Ovest a Est, che alla fine hanno portato a radicali riforme del Welfare State che a loro volta hanno posto un limite alla solidarietà degli elettori tedeschi. L’accentuazione del modello di crescita tedesco basato sulle esportazioni degli anni Duemila ha sì dato il via a una ripresa in Germania, ma anche a enormi deficit commerciali nei Paesi periferici dell’euro. Tale modello ha quindi trasformato la Germania da Paese debole durante i primi anni dell’euro a Paese forte durante la crisi. Tutto questo ha portato, in ultima analisi, a una situazione in cui la Germania trae dalla crisi dell’euro profitti maggiori di quanti ne guadagnerebbe dalla  sua risoluzione.

La soluzione della crisi dell’euro dunque appare complessa. Gli autori richiamano però l’attenzione su una contraddizione fondamentale: a lungo andare la politica di austerità nel Sud minerà il modello di esportazione tedesco. Forse che una presa di consapevolezza di ciò da parte dei policy-makers tedeschi rappresenti il modo per uscire dalla crisi? Il problema qui è che gli economisti e i decisori tedeschi semplicemente non vedono i limiti del nuovo modello di crescita tedesca. Elettori e politici attribuiscono infatti il successo economico della Germania ai tagli drastici delle riforme Hartz IV – il cui contributo alla crescita tedesca è stato marginale – più che alle esportazioni.

Il volume non ha, nel complesso, molti punti deboli. Di certo gli autori avrebbero potuto dedicare più attenzione a una riflessione su come uscire dalla crisi. L’ultimo capitolo comprende una panoramica delle diverse proposte di riforma in circolazione 2013. Come Matthijs e Blyth giustamente sottolineano, a tanti buoni propositi non corrispondono altrettante idee su come mettere questi in atto concretamente. Tuttavia, essi stessi tagliano corto nell’indicare la direzione da intraprendere. Questo è un peccato, a maggior ragione visto l’approccio multitematico del volume, in cui si sarebbe potuto forse osare di più nell’ipotizzare soluzioni multidimensionali alla crisi, che tengano conto dei suoi aspetti economici, politici, sociali e istituzionali.

 

[Una versione estesa dell’articolo è disponibile in lingua inglese su euvisions.eu - traduzione a cura di Elisa Carrettoni]