L’Albania ha cambiato colore. Con più di 990 mila voti contro i circa 678 mila della coalizione di destra, la sinistra riunita nell’Aleanca për Shqipërinë Europiane (Alleanza per l’Albania europea) si è aggiudicata 84 seggi sui 140 disponibili nel Parlamento monocamerale. Il cambio della guardia era atteso da molti: il diffuso malcontento nei confronti del governo in carica e la sfavorevole congiuntura economica, ma soprattutto l’allargamento del fronte d’opposizione alla controversa figura di Sali Berisha – settantenne leader del Partito democratico (Pd) in cerca del terzo mandato consecutivo – avevano annunciato da tempo la probabile sconfitta della destra. D’altro canto, il successo della coalizione capitanata da Edi Rama non era affatto scontato: il giovane ma navigato leader del Partito socialista (Ps) si presentava a questo cruciale appuntamento elettorale indebolito da due insuccessi consecutivi (alle politiche del 2009 e delle comunali del 2011): l’ennesima quasi-vittoria dell’ex sindaco della capitale avrebbe facilmente decretato la sua fine politica.

Al di là dell’euforia viola che si è scatenata per le strade di Tirana all’indomani del voto (una gioia mista a un senso di liberazione), le proporzioni del cambiamento emergono sia dai numeri che dalla distribuzione geografica del successo della sinistra – un vero e proprio terremoto politico ha scosso le regioni del Nord, storicamente ad appannaggio del Pd. Rispetto alle ultime politiche, l’affluenza ha inoltre registrato un leggero aumento (53% a fronte del 50% del 2009); il Pd ha perso più di 83 mila voti, mentre il Ps ne ha guadagnati circa 92 mila. Tuttavia, poiché la legge elettorale albanese attribuisce ad ogni distretto un numero di deputati proporzionale alla popolazione residente, se è vero che nel nuovo Parlamento la presenza del Pd si ridurrà di 19 unità (da 68 a 49 deputati), il Ps guadagna un solo parlamentare rispetto alla scorsa legislatura (da 65 a 66). Vale inoltre la pena ricordare che dei 64 partiti politici partecipanti alla competizione elettorale, solo due si erano presentati al di fuori delle due coalizioni contrapposte – il partito dell’ex presidente Bamir Topi Fryma e Re Demokratike (Frd - Nuovo respiro democratico) e Aleanca Kuq e Zi (Alleanza rossonera) di Kreshnik Spahiu. Complici la polarizzazione della campagna mediatica e una legge elettorale premiante le coalizioni, nessuna di queste formazioni – e tantomeno i tre candidati indipendenti (l’ex Ps Arben Malaj a Vlora, l’ex Lsi Dritan Prifti a Fier e l’ambientalista Sazan Guri a Tirana) –  sono riusciti a entrare in Parlamento.

Se il successo personale di Edi Rama è un dato incontestabile – lo stesso Berisha lo ha pubblicamente riconosciuto in una storica conferenza stampa, durante la quale si è dimesso dalla segreteria del Pd – il vero vincitore di queste elezioni è il Partito socialista per l’integrazione (Lsi - Lëvizja Socialiste për Integrim), una formazione nata nel 2004 da una costola del Ps ma che negli ultimi quattro anni ha fatto parte del governo Berisha. Passato tra le fila dell’opposizione a tre mesi dal voto per siglare l’alleanza elettorale con il Ps, il partito di Ilir Meta – un politico di lungo corso che dal 1999 a oggi ha ricoperto i più importanti incarichi istituzionali e che si distingue per la capacità di conservare e ampliare il proprio capitale di consenso – ha più che raddoppiato i propri voti (da 73 mila a 181 mila), quadruplicando i suoi deputati (da 4 a 16). L’opacità della figura di Ilir Meta, un “animale politico” il cui pragmatismo trasformista è divenuto proverbiale e su cui grava un recente scandalo a “lieto fine giuridico”, smorza in qualche modo l’entusiasmo tra i militanti del Ps: con i suoi 16 deputati (cui vanno aggiunti alcuni “infiltrati” eletti nelle liste del Ps), l’Lsi ha di fatto il potere di dare vita a nuove maggioranze parlamentari: in altre parole, il sostegno al governo Rama avrà sicuramente un prezzo molto alto.

Proprio al partito di Meta è legato l’unico grave episodio di violenza verificatosi il giorno del voto, a due ore dall’apertura delle urne. In un seggio di Laç, una piccola cittadina a Nord di Tirana, un sostenitore dell’Lsi è rimasto ucciso durante uno scambio a fuoco che ha coinvolto, ferendolo, anche un candidato nelle liste del Pd di Lezha; le dinamiche dell’incidente non sono ancora state chiarite. Meta si è comunque affrettato ad attribuire ogni responsabilità al clima d’odio scatenato da Berisha nei confronti dell’Lsi, ma quanto accaduto non è che l’esito drammatico di due problemi correlati: una campagna elettorale incentrata sulla denigrazione dell’avversario e una battaglia politica che in Albania fatica a svolgersi al di sopra degli interessi clientelari, che spesso legano i singoli militanti e le basi elettorali ai partiti di riferimento. Al di là di questo tragico inizio, il rapporto degli osservatori Osce-Odihr sullo svolgimento delle operazioni di voto è stato soddisfacente: se si escludono episodi di ritardo nell’apertura dei seggi e nel conteggio, nonché alcune scorrettezze formali come il voto di gruppo (praticato soprattutto per far votare gli anziani), nessun broglio sostanziale è stato registrato dagli osservatori internazionali.

Io stesso, in qualità di short term observer Odihr reclutato sul posto dall’Ambasciata d’Italia, ho avuto modo di osservare le procedure di voto e di conteggio nella zona 7 della capitale. Seppur dal "basso" della mia posizione, credo si possa essere ottimisti circa lo sviluppo della giovane democrazia albanese. In questo Paese, così vicino e al contempo così lontano dall’Europa, si può capire meglio che altrove come la democrazia sia una pratica che ha bisogno di tempo: uno sforzo collettivo che, come tutti gli esercizi di civiltà, è contemporaneamente fragile e potentissimo. Fragile perché, come dimostrano i fatti di Laç, la lenta pratica democratica può essere facilmente sostituita dall’esercizio di meri rapporti di forza; potente perché, come gli stessi albanesi hanno dimostrato, attraverso la democrazia è possibile modificare quei rapporti di forza, dando vita a realtà alternative a quelle finora vissute. La potenzialità rivoluzionaria della democrazia è stata senza dubbio colta e sfruttata dai cittadini, cui spetta ora il compito di vigilare sulla classe politica che è chiamata a raccogliere il messaggio, chiarissimo, del proprio popolo.