La tempesta che ha investito il Pd a livello nazionale stavolta non ha trovato un argine neppure nelle regioni dell’Italia di mezzo (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche), una volta considerate delle fortezze inespugnabili della sinistra. La sconfitta, alla fine, è arrivata anche qui. E se non è un crollo poco ci manca. È vero che in queste zone i consensi per il Pd sono ancora superiori alla media: di quasi l’8% in Emilia-Romagna, addirittura dell’11% in Toscana. Ed è anche vero che ben 24 dei 37 collegi uninominali conquistati dal centrosinistra, alla Camera e al Senato, si trovano in queste regioni.
Tuttavia, i numeri parlano chiaro e non lasciano dubbi sul cataclisma politico che si è abbattuto sulle (ex) zone rosse. In Emilia, in Umbria e nelle Marche, alla Camera, la coalizione di centrodestra supera quella di centrosinistra. Quest’ultima mantiene il primato solo in Toscana, ma con appena due punti di margine. La Lega guadagna oltre un milione di voti, raggiungendo il 18,4%, mentre il Movimento 5 Stelle – che pure avanza di poco rispetto al 2013 (+2%) – è il primo partito in Emilia-Romagna (27,5%), nell’Umbria (27,5) e nelle Marche (35,6%). Per converso, l’arretramento del Pd è di grande entità: nelle 4 regioni, considerate complessivamente, perde l’8,8% contro il 6,7% della media italiana. In ben 4 province dell’Emilia (Bologna, Parma, Ravenna, Reggio nell’Emilia) e in una della Toscana (Pisa) il calo si colloca tra il 10 e il 13%. Anche la sponda di Liberi e Uguali ha funzionato davvero poco, ottenendo – in quelle che venivano immaginate come delle “praterie elettorali” – un misero 4,2%.
Sarebbe un errore di miopia, però, attribuire tutta la responsabilità della sconfitta alla leadership di Renzi o alla critica corrosiva dei fuoriusciti del Pd. Le radici sono ben più profonde e di lunga durata. Per chi l’avesse dimenticato, infatti, va ricordato che nel 2013, il Pd a “trazione-bersaniana” aveva perso molto di più: nelle Marche il 13,7% (contro il 6,4% del 2018), in Umbria il 12,3% (contro il 7,2%), in Toscana il 9,3% (contro il 7,8%). Solo in Emilia l’arretramento era stato leggermente più contenuto (-8,7%) per cui, nel 2018, gli elettori hanno pensato bene di recuperare il tempo perduto (-10,7%). Cosa si cela dietro variazioni elettorali di questa entità?
In primo luogo, ci sono cambiamenti strutturali di lungo periodo, connessi ai processi di modernizzazione sociale e di globalizzazione economica, che hanno modificando la struttura di classe, la competizione internazionale, la regolazione del mercato del lavoro, la cultura e i valori diffusi nella popolazione. Qui, come nel resto d’Italia. Già nello scorso decennio era evidente che questi processi avevano innescato due linee di tensione che mettevano in difficoltà i partiti eredi del Pci (F. Ramella, Cuore rosso?, Donzelli, 2005).
a) Un “cleavage funzionale”, che tendeva a differenziare il voto dei ceti medi autonomi da quello dei lavoratori dipendenti, mettendo così in crisi la tradizionale “strategia delle alleanze” del Pci, che per molto tempo aveva caratterizzato l’equilibrio politico e la coesione sociale dell’Italia di mezzo. E questa linea di tensione si palesava – allora come oggi – soprattutto quando il centrosinistra era al governo nazionale.
b) Un “cleavage generazionale”, legato al mutamento culturale, delle condizioni di vita e delle modalità di socializzazione politica dei giovani, che mentre li esponevano sempre di più ai processi di precarizzazione economica, li rendevano anche meno incapsulati nelle vecchie tradizioni politico-elettorali.
In secondo luogo, ci sono le dinamiche economiche di breve periodo. Agli elementi precedenti, infatti, va aggiunto il potente fattore di accelerazione rappresentato dalla crisi economica internazionale, che ha investito frontalmente queste regioni, interessando in particolare i ceti produttivi (autonomi e non) e i più giovani. Pochi dati sono sufficienti per rendere il quadro generale. Nell’Italia di mezzo, tra il 2007 e il 2016, il calo del tasso di occupazione è stato superiore a quello delle regioni del Nord (-1,4% vs -0,4%), raggiungendo nelle Marche (dove si sono avute le perdite più forti per il Pd) un valore addirittura superiore a quello del Mezzogiorno: -2,6% vs -2,5%. Ancora più eclatanti sono stati l’aumento del tasso di disoccupazione giovanile (+18,5% vs +16,6% italiano) e la flessione del Pil pro capite, che nei primi anni della crisi, tra il 2007 e il 2012, ha raggiunto valori negativi (-3,9%) ben più elevati di quelli delle regioni del Nord (-1,2%) e del Sud (-1,7%).
Che questa chiave di lettura “economica” aiuti in parte a spiegare l’esito delle ultime elezioni trova conferma nel profilo territoriale del voto. Il Pd, infatti, tiene meglio non solo dove più forte era il radicamento della subcultura comunista, ma anche nelle province più ricche, con maggiori livelli di reddito e di occupazione. Viceversa, la Lega e il Movimento 5 Stelle penetrano più facilmente, rispettivamente, nelle province a minor reddito e in quelle con andamenti particolarmente negativi dei tassi di occupazione, dove si registrano anche livelli di astensionismo più elevati.
Infine, ci sono i fattori politici. Non solo la crisi nazionale del Pd, ma anche il venir meno del voto di appartenenza, il logoramento della classe politica locale e di un modello di regolazione capace, al tempo stesso, di sostenere lo sviluppo e mediare le sue tensioni sociali. Punti, questi, che non è possibile approfondire qui, ma su cui sarà necessario ritornare.
In conclusione, lo scongelamento di quella che un tempo veniva definita la subcultura comunista ha subito una forte accelerazione negli ultimi anni a causa della recessione economica e della crisi politica che ha lacerato il maggiore partito di governo, soprattutto dopo il deludente esito del referendum istituzionale. Per l’Italia di mezzo si tratta di una sconfitta ben più grave di quella che, nel 1999, consegnò Bologna nelle mani di Guazzaloca. Perché stavolta l’arretramento risulta generalizzato e non risparmia neppure il cuore economico e politico del suo modello di sviluppo. Per rendersene conto basta analizzare l’andamento del voto nei 50 comuni capofila dei distretti industriali di queste regioni. Nelle elezioni del 2008 il centrosinistra deteneva la maggioranza relativa (e a volte assoluta) dei voti in ben 40 di essi; nel 2013 il numero si era ridotto a 36 e, soprattutto, le distanze dagli “sfidanti” si erano decisamente accorciate. Nel 2018 i distretti ancora presidiati dal centrosinistra sono appena 16.
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