Alle soglie di una nuova crisi? Negli ultimi mesi sono emersi preoccupanti segnali di crisi nell’arcipelago di Zanzibar: disordini, saccheggi e scontri tra manifestanti e polizia hanno agitato la vita politica nelle isole, attirando l’attenzione dei media internazionali. La preoccupazione di fondo che accomuna gli osservatori è che quanto sta avvenendo metta a repentaglio la stabilità politica che l’arcipelago sembrava avere finalmente trovato con la sigla, nel 2009, dell’accordo politico tra il Chama cha Mapinduzi (Partito della rivoluzione, Ccm), al potere dalla rivoluzione del 1964 fino al 1977 (con il nome di Afro-Shirazi Party) e il Civic United Front (Cuf), il principale partito di opposizione.

La reintroduzione del multipartitismo nel 1994 aveva infatti spalancato il vaso di Pandora delle tensioni politiche e sociali a Zanzibar, le cui radici affondano nella storia dell’arcipelago tra XIX e XX secolo e che lo Stato a partito unico, istituito dopo la rivoluzione, si era limitato a soffocare. Nei primi anni Novanta la competizione politica era così tornata ad assumere i toni esasperati degli anni Cinquanta e Sessanta, pur inserendosi in uno scenario radicalmente nuovo. Mentre gli esponenti locali del Ccm si erano dimostrati determinati a mantenere le redini del potere politico nelle loro mani, anche a costo di fare ricorso all’intimidazione e alla manipolazione dei risultati elettorali, i vertici del Cuf avevano buon gioco a far proprie le mai sopite rivendicazioni autonomiste dell’arcipelago e ad agitare la questione della riforma della federazione tra Zanzibar e la Tanzania continentale per ottenere consensi. Di conseguenza, dalla metà degli anni Novanta ogni tornata elettorale era stata accompagnata da episodi più o meno gravi di violenza e da accuse di brogli elettorali.

L’accordo sancito sul finire del 2009 (e successivamente confermato da un referendum) tra Amani Abeid Karume, l’allora presidente di Zanzibar, e Seif Shariff Hamad, segretario generale del Cuf, aveva condotto allo svolgimento di elezioni nel 2010 che, a differenza del passato, non erano state macchiate da gravi irregolarità o violenze. Mentre il candidato del Ccm, Ali Mohamed Shein, era stato proclamato presidente e aveva proceduto alla nomina di un governo composto da ministri provenienti dalle fila tanto del Ccm, quanto del Cuf, Seif Shariff Hamad era divenuto vicepresidente dell’arcipelago.

Della recente ondata di scontri e violenze è stata accusata la Jumuiya Ya Uamsho na Mihadhara Ya Kiislamu Zanzibar (Associazione per la rinascita e la diffusione dell’Islam a Zanzibar), un’organizzazione non governativa di ispirazione islamica legata ad ambienti politici e finanziari del Golfo Persico, i cui esponenti hanno ripetutamente accusato il governo di non avere saputo promuovere un maggiore sviluppo economico e sociale nell’arcipelago. Molte teorie sono circolate sui collegamenti “segreti” tra Uamsho e i vertici sia del Ccm, sia del Cuf, ma nessuna è stata realmente provata. Più probabile appare l’ipotesi che questa ondata di violenze sia espressione di una spaccatura all’interno del fronte islamico zanzibarita, con l’emergere di una nuova leadership radicale fortemente critica nei confronti del patto che ha condotto alla spartizione del potere tra Cuf e Ccm.

Mentre resta da vedere quale piega prenderanno gli eventi a Zanzibar, il rischio di fondo è che quanto sta avvenendo nell’arcipelago costituisca il preludio di quanto potrebbe verificarsi nella Tanzania continentale, dove il Ccm è sempre più in difficoltà, scosso da scandali, dall’approfondirsi delle disuguaglianze socio-economiche e dal crescente consenso a favore dall’opposizione rappresentata dal Chama cha Demokrasia na Maendeleo (Partito della democrazia e dello sviluppo). In questo contesto, la frammentazione del tessuto economico e sociale e il lento ma inesorabile logoramento del predominio politico del Ccm a cui stiamo assistendo potrebbe accompagnarsi a un ciclo di rivendicazioni, violenze e repressione che incrinerebbe definitivamente la pace sociale in Tanzania.