Un ponte tra l’Europa e i Balcani. Ancora una volta è andato in scena il grande spettacolo dell'Europa unita. In piazza Jelačić, nel cuore di Zagabria, la sera del 30 giugno si sono riuniti i rappresentanti dei governi europei {C}(con la significativa assenza della cancelliera tedesca Angela Merkel) e hanno celebrato l'ingresso del 28° membro dell’Unione europea, la Croazia. Se da un certo punto di vista questo evento si colloca in continuità con l’allargamento ad Est del 2004 e del 2007, tuttavia, il contesto è ben diverso, a causa della crisi politica, economica e sociale che da tempo minaccia la stabilità, se non la stessa esistenza dell’Unione. In questo quadro quanto mai allarmante, l'ingresso croato in Europa è carico di promesse e di opportunità, come di incognite e interrogativi. Se prevarranno le prime, o se si confermeranno le preoccupazioni che derivano dalle seconde, dipenderà dal tempo, e dalle scelte politiche che assumerà il governo croato, come gli altri governi dell'Unione. Tuttavia, è questa l'occasione per delineare alcune delle questioni di fondo, al di là della cronaca più immediata di un passaggio comunque importante.
Una bussola per orientarsi entro queste questioni è stata data dal discorso di eccezionale vigore politico che il premier croato Zoran Milanović ha tenuto la sera dei festeggiamenti. Ben lungi dal limitarsi a una retorica rappresentazione dell’europeismo croato, ha scelto di richiamare i nodi fondamentali (e più controversi) che emergono con l'adesione croata all’Ue, i suoi presupposti e le sue implicazioni. Il suo sguardo non era rivolto soltanto al futuro e all’Occidente, ma anche – e forse soprattutto – al passato recente delle guerre ex jugoslave e ai vicini Paesi balcanici ancora fuori dall’Ue. Particolarmente sorprendente è stato il suo riferimento alla comune lotta antifascista durante la Seconda guerra mondiale, quale fondamento di una comune identità politica dei Paesi ex jugoslavi. Questa affermazione colpisce soprattutto se si pensa che la costruzione dello Stato nazionale croato negli anni Novanta si è spesso intrecciato allo sforzo di superare proprio quell’eredità antifascista, identificata con il passato jugoslavo. Di quel tentativo, compiuto in nome della pacificazione nazionale, faceva parte anche il controverso rapporto con il retaggio politico e storico dello Stato indipendente croato.
Convitato di pietra della cerimonia è stato infatti Franjo Tudjman, il primo presidente della Croazia post-jugoslava, considerato il padre della patria da molti croati. In realtà, la sua eredità politica è tutt’ora problematica, oggetto di accese polemiche, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con gli altri Paesi ex-jugoslavi e le mire espansionistiche croate nei confronti della Bosnia Erzegovina nel corso delle guerre degli anni Novanta. Infatti, nonostante le procedure di ammissione della Croazia nell’Ue siano state avviate nel 2003 – dopo la sua morte, avvenuta nel 1999 – molti ritengono che sia Tudjman il vero artefice del “ritorno all’Europa”. Non a caso uno dei quotidiani principali croati, Večernji list, ha ricondotto l’impegno europeo di Tudjman alle sue battaglie nazionaliste già a partire dalla fine degli anni Sessanta.
Emerge qui il nodo fondamentale del significato dell’Europa, dei suoi rapporti con la tradizione nazionale, della forma dello Stato e dei suoi rapporti con le minoranze nazionali, e in particolare con quella serba, drasticamente ridotta a seguito delle guerre degli anni Novanta. Esistono infatti due visioni dell’Europa in Croazia: una vissuta come riaffermazione della sovranità nazionale in chiave prima anti-jugoslava e poi anti-balcanica, tesa al recupero di un’identità cattolica e dispiegata in senso anti-ortodosso e anti-musulmano, elaborata da Tudjman e variamente reinterpretata dagli esponenti del suo partito Hdz (Unione democratica croata); l’altra invece rappresenta l’approdo all’Ue in termini di adesione a un modello di convivenza democratica fondata sul riconoscimento dei diritti degli individui e delle minoranze. Di questa visione, che si propone di fare i conti con il lascito delle guerre degli anni Novanta e allo stesso tempo di aprirsi a un diverso futuro europeo, raccoglie lo spirito il discorso di Milanović e, più in generale, delle forze di sinistra attualmente al governo. Suo corollario essenziale è l’ulteriore inclusione nell’Ue degli altri Paesi ex jugoslavi coinvolti nelle guerre degli anni Novanta.
Questo è l’impegno e l’auspicio di cui si è fatto portavoce e garante Milanović. Dal suo punto di vista la Croazia si può e si deve trasformare in una sorta di ponte tra l’Europa e i Balcani, in opposizione a chi la immagina come baluardo dell’Occidente di fronte all’Oriente. Come ha fatto notare lo scrittore Miljenko Jergović in un recente articolo sullo Jutarnji list, mentre si semplifica il passaggio ai valichi con la Slovenia e l’Ungheria, il confine con la Serbia si rafforza, avvolgendo così l’orgoglio nazionalista croato nella bandiera dell’Europa unita. Tuttavia, solo i prossimi mesi (e anni) diranno se l’ingresso della Croazia nell’Ue sarà l’inizio della fine dei vecchi confini, o il motivo di nuove e più profonde divisioni nella penisola balcanica.
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