L’Atlantico in questo periodo si è di nuovo allargato. Stati Uniti ed Europa, o meglio le diverse Europe – l’Europa dell’Unione europea e quelle espressione di risorgenti interessi nazionali, se non locali – hanno difficoltà a trovare un linguaggio comune. Non è la prima volta che accade. In passato, sono stati molti gli esempi di un Atlantico che si è esteso o ristretto in virtù di crisi politiche, economiche o sociali, e più spesso per le tentazioni unilateraliste che hanno contraddistinto alcune fasi della politica estera americana. Si pensi solo al gelo calato con la War on Terror e al risorgere di rispettivi "anti-ismi": l’antiamericanismo in un’Europa che faceva fatica a capire le crociate dell’America di Bush Jr e, di converso, l’antieuropeismo di intellettuali e opinionisti statunitensi che ripescavano antichi stereotipi per descrivere una, a loro avviso, imbelle Europa.
Tuttavia, oggi, la divisione appare più sottile, meno dichiarata, ma non meno significativa della diversità con cui si cerca di rispondere a una crisi sistemica come quella attuale. Non si tratta soltanto dell’incapacità dell’amministrazione Obama (e di una parte dell’opinione pubblica americana) di comprendere le rigidità della leadership europea nei confronti della Grecia, di fronte a quello che appare a tutti, ormai, come l’evidente fallimento delle politiche di austerità. E neppure di un’incomprensione dovuta all’attenzione distratta e un po’ annoiata che si presta a qualcosa che si ritiene, tutto sommato, un fatto marginale. Ben più importante è la considerazione rivolta a ciò che sta scuotendo la borsa di Pechino, in un contesto in cui Obama, da settimane, sta intraprendendo un vero e proprio braccio di ferro con il Senato e con pezzi del suo stesso partito a proposito del trattato sul libero commercio nell’area del Pacifico.
Quello che sembra dividere le due sponde dell’Atlantico è il modello sociale e politico che fa da sfondo alle dinamiche politiche contemporanee. Pur dentro un quadro fortemente polarizzato, per effetto di meccanismi elettorali che stanno dimostrando la loro usura, ciò che si delinea nell’orizzonte politico americano è la ripresa di una visione politica, economica e sociale che cerca, con fatica e non poche contraddizioni, di prospettare un modello politico "liberal", in grado di mettere assieme ciò che, almeno nel passato recente, aveva viaggiato lungo binari separati e spesso conflittuali: attenzione ai diritti della persona, riconoscimento delle differenze di etnia, razza e genere come parte della definizione di cittadinanza americana, e allo stesso tempo necessità di affrontare il tema della disuguaglianza sociale ed economica. Eppure, era stata questa l’ambizione del modello europeo delle democrazie del benessere, adesso in dismissione, e la sua pretesa di superiorità rispetto all’ineguale Welfare americano.
Le diverse questioni che stanno animando il dibattito politico americano fanno intravedere un quadro coerente che interroga la capacità della classe politica e intellettuale di concepire un’agenda liberal e riformista in grado di dare risposte a istanze vecchie e nuove. Uno dei più autorevoli commentatori americani, E.J. Dionne ha scritto sul "Washington Post" di qualche giorno fa che gli Stati Uniti stanno vivendo una di quelle accelerazioni della storia che sembrano cogliere tutti un po’ di sorpresa. Il riferimento era ovviamente alla sentenza della Corte suprema sul matrimonio same-sex. E tuttavia non bisognerebbe perdere di vista non solo le altre sentenze emesse dalla Corte (validità dell’Obamacare, difesa dei diritti delle minoranze per quanto riguarda le politiche abitative, difesa dei diritti delle donne in gravidanza e dei lavoratori in controversie che mettono in discussione i diritti delle minoranze religiose), ma anche episodi che hanno un alto valore simbolico e politico, come la decisione della Carolina del Sud, 150 anni dopo la fine della guerra civile, di ammainare la bandiera confederata, a lungo difesa in nome del Sud e della sua identità.
L’odierna Corte, per quanto polarizzata, ha riaffermato l'inscindibilità del binomio libertà-eguaglianza, troppo spesso disgiunto da posizioni riformiste che, in nome della libertà, hanno sacrificato l’eguaglianza e la dignità individuale. Certo, questo riflette l’importanza delle nomine operate da Obama, ma anche la capacità della Corte, più della politica, di cogliere i mutamenti profondi della società americana: crescente diversità razziale, immigrazione, aumento del secolarismo, trasformazione delle strutture familiari, mutamenti del tessuto sociale dei grandi centri metropolitani. Insomma, una nuova agenda politica liberal forse sta emergendo, come dimostrano i sondaggi che per la prima volta certificano l’aumento della percentuale di americani che non temono di definirsi "social liberal", in larga maggioranza a favore dei matrimoni same-sex e di politiche di liberalizzazione della marijuana. E anche se sui temi economici molti continuano a definirsi "conservatori", la loro percentuale è in costante ribasso perché il governo non viene più considerato, come ai tempi di Reagan, "il problema".
Di questa società in movimento, Obama è stato allo stesso tempo espressione e beneficiario. I sondaggi sul gradimento che, dopo molto tempo, lo vedono attorno al 50%, rimettono in discussione l’immagine di un triste presidente lame-duck, emerso dopo la sconfitta del suo partito nelle elezioni del 2014. Sul contributo o sulle ambivalenze, se non timidezze, dell’amministrazione Obama nei riguardi della capacità di mettere assieme azione di governo, rispetto dei diritti della persona e giustizia sociale si dovrà ancora discutere molto e spetterà agli storici un’analisi più ponderata. Ma certo, con Obama, e forse malgrado lui, la parola "liberal" (impronunciabile negli anni Novanta) è stata sdoganata e ha riacquistato, ai tempi della crisi, una nuova dignità per la richiesta crescente di un’America più giusta e inclusiva. Hillary Clinton, da animale politico qual è, ha "mangiato la foglia" e si sta spostando sempre più verso sinistra. Forse anche i riformisti europei dovrebbero seguire l’esempio di Hillary e dare un’occhiata meno supponente a ciò che succede al di là dell’Oceano.
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