Tutto è cominciato così, secondo una delle adolescenti finite nello scandalo delle “baby prostitute dei Parioli”: da una ricerca su Google con la parola chiave “come guadagnare soldi”. È nella banalità di questa frase detta da una ragazzina al procuratore per giustificare la propria scelta, perché di scelta e non di costrizione si tratta, che troviamo la cifra di un fenomeno che va ben oltre il tema della prostituzione giovanile e del reato che commettono i clienti di prostitute minorenni.
Ciò che è scioccante sul piano sociale e culturale, non è tanto la prostituzione giovanile in sé, fenomeno conosciuto e ampiamente studiato, ma il mix di razionalità, efficienza, cinismo che emerge sia dall’interrogatorio della ragazza più "grande" (15 anni) al Palazzo di Giustizia, che dalle conversazioni e dagli sms scambiati con i clienti. Non vi è l’ombra di un qualche senso di ripugnanza nel dover compiere atti sessuali con uomini adulti, che potrebbero essere i loro padri o nonni, né senso di colpa o di vergogna nell’ammetterlo esplicitamente, ma l’idea di fare qualcosa di normale, come i lavoretti estivi che molti studenti fanno per pagarsi le vacanze.
Si coglie addirittura nei colloqui riportati su molti quotidiani nei giorni scorsi, la precisa e quasi orgogliosa rivendicazione che la loro è stata una scelta, che non sono vittime di qualche losco individuo, che sapevano quel che facevano. Niente a che fare col solito vittimismo con cui si presentano e in genere vengono presentate le giovani (spesso immigrate) finite nel giro della prostituzione.
La normalità del vendere il proprio corpo per denaro a 15 anni, dopo la scuola, non si discosta molto da altri casi che hanno trovato spazio nella cronaca di questi giorni. Mi riferisco, ad esempio, al caso riportato dal direttore del reparto di pediatria dell’ospedale Fatebenefratelli delle “ragazze doccia” (chiamate così perché facevano sesso con la stessa normalità quotidiana con cui si fa la doccia), provenienti da famiglie benestanti, che si prostituivano a scuola in cambio di ricariche telefoniche e altri gadget (v. Corriere della Sera, 11 novembre 2013). Dello stesso tenore anche il caso dei ragazzi che si prostituivano con Gabriele Paolini, il tormentatore di giornalisti e dirette televisive, che hanno giustificato il loro comportamento con la motivazione che “è uno famoso”, che compare in tv. I soldi e la “fama”.
Mi sembra che la questione posta da questi casi possa essere letta non come assenza di valori, come si tende generalmente a fare, ma come sintomo di una più generale e preoccupante mancanza di criteri che definiscono i mezzi legittimi e riconosciuti per raggiungere quelle mete culturali condivise nelle società attuali, non solo nella nostra: il denaro, il potere, il successo.
Queste bambine, come molte e molti più grandi di loro, meno scusabili quindi, non sanno distinguere tra mezzi leciti e mezzi illeciti, non hanno imparato a provare vergogna. Forse non hanno avuto gli insegnamenti giusti in famiglia, certo non li hanno avuti dai grandi che il potere, il denaro, il successo l’hanno raggiunto. Ma non veniamo forse a sapere quasi tutti giorni attraverso i media che per “arrivare” da qualche parte (nello spettacolo, nelle carriere professionali, in politica) non sono necessari merito e impegno, ma bisogna avere qualcosa da scambiare: relazioni importanti, conoscenze, favori sessuali?. Le baby squillo, nella loro ingenua sfrontatezza di bambine cresciute troppo in fretta, non accampano scuse e si limitano a dire con candore: “… a parte che io sono minorenne, ma se fossi stata maggiorenne, come lo fanno molte persone, nessuno mi avrebbe detto niente”.
Quale prospettiva può avere una società in cui non viene trasmesso ai giovani quello che Hannah Arendt chiama il “vento del pensiero”, l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto?
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