I premi Oscar a Ennio Morricone e a Leonardo DiCaprio, vincitori entrambi dopo tante nomination deluse e una lunga attesa (sebbene il compositore italiano abbia vinto una statuetta alla carriera nel 2007), segnalano un ritorno del western. Il rinfocolarsi delle passioni per la frontiera, che per definizione è sempre “ultima” e invero non è mai tale, si verifica in momenti “insospettabili”, ma mica tanto, per esempio quando una crisi rischia di minare le radici immaginifiche dell’impero americano e il suo stesso afflato. Allora Hollywood si guarda le spalle, volgendo lo sguardo verso Oriente, dove incrocia il fantasma dell’occidentalizzazione forzata, e verso il passato di una tradizione aurea persino nel declino. Andando a ritroso, lo certificano pellicole tanto “crepuscolari” quanto vivide: da Unforgiven di Clint Eastwood (1992), ai lavori anni Sessanta-Settanta di Sam Peckinpah (Ride the High Country, The Ballad of Cable Hogue, Pat Garrett and Billy the Kid) immalinconiti dall’impossibilità di resistere al progresso e di ribellarsi alla distruzione della forza mitopoietica americana. Ma anche in The Shooting e Ride in the Whirlwind di Monte Hellman del 1966-67 il viaggio è ormai il disperato tentativo di fuoriuscire da uno spazio vuoto, da una terra di nessuno, come se il protagonista Jack Nicholson portasse nella bisaccia Aspettando Godot e L’uomo senza qualità.
Aveva ragione André Bazin: il western è “il cinema americano per eccellenza”, non è (solo) un genere, è una matrice, la forma novecentesca di un’epopea: “Billy the Kid è invulnerabile come Achille”. Da una parte il western avvera la dialettica fondativa – secondo una felice sintesi di Nash Smith – fra “giardino” e “deserto”, ossia fra civiltà e stato di natura, bianco e indiano, individuo e comunità, libertà e costrizione, empirismo e utopia, America ed Europa. Dall’altra, corrisponde alla natura essenziale del mito: “la concettualizzazione ripetitiva, ossessiva di un dilemma” (Michel Ciment).
Sono nell’alveo del western, appunto, due dei film premiati nella notte degli Oscar di quest’anno, appena svoltasi a Los Angeles. Il primo è The Revenant, del messicano Alejandro González Iñárritu, cui sono stati assegnati i premi per la migliore regia (un prestigioso bis dopo le tre statuette vinte l’anno scorso con lo straordinario Birdman); per l’attore protagonista Leonardo DiCaprio; e per la fotografia di Emmanuel “Chivo” Lubezki, anche lui messicano, che raggiunge addirittura il tris dopo i premi per Birdman nel 2015 e Gravity nel 2014. L’altro film è The Hateful Eight di Quentin Tarantino che concorreva in tre categorie, compresa la colonna sonora per cui ha vinto Ennio Morricone, emozionatissimo mentre la platea del Dolby Theatre lo festeggiava con una standing ovation.
The Revenant e The Hateful Eight sono due film molto diversi tra loro che, descrivendo traiettorie opposte e speculari, parimenti contribuiscono alla “decostruzione” del mito americano e a un suo paradossale rinverdimento. Il messicano Iñárritu mostra di credervi di più e il “redivivo” del titolo è il western medesimo, che qui si dispiega dall’avventura di un uomo in lotta per la sopravvivenza nelle terre e nelle emozioni estreme. La vicenda è ispirata alla biografia dell’esploratore Hugh Glass, il quale, nel Missouri del 1823, viene attaccato da un orso e dato per morto dai compagni di viaggio della spedizione di caccia (la storia di Glass ispirò già Man in the Wilderness di Richard C. Sarafian del 1971, con l’“uomo chiamato cavallo” Richard Harris).
Glass/DiCaprio è iscritto in un orizzonte contemplativo un po’ alla maniera dell’ultimo Terrence Malick – curiosità: per Days of Heaven, di Malick, nel 1978 Morricone ottenne la prima delle sei candidature agli Academy Awards – e in uno stile incardinato sul virtuosismo del piano-sequenza di Iñárritu. Le sue visioni oniriche confluiscono in un’elegia del paesaggio americano dove tutto scorre, indifferente all’equivoco dell’“umanità” che lo popola o lo attraversa. The Revenant è una riscoperta dell’America primigenia; un monito alla presunzione dell’uomo che si è venduto la pelle dell’orso prima di averlo ucciso e che ha ritenuto di poter dominare o “domare” la natura, la sua algida e feroce irriducibilità. Tragica illusione scandita dalle musiche di Ryuichi Sakamoto e Alva Noto.
Una sorta di “canone inverso” è all’opera in The Hateful Eight di Tarantino, che si apre con una diligenza in corsa nell’innevato Wyoming, all’indomani della Guerra civile. La diligenza come presagio delle “ombre rosse” in un interno che si scateneranno di lì a poco. Una tempesta impone ai viaggiatori di fermarsi in una locanda lungo il tragitto: sono un cacciatore di taglie e la sua prigioniera, un veterano afroamericano dell’esercito dell’Unione che ha con sé una lettera autografa di Abramo Lincoln e un rinnegato delle truppe confederate nonché – sostiene – prossimo sceriffo. Nell’“emporio di Minnie” troveranno ad attenderli altri quattro avventurieri e tutti insieme “i detestabili otto” daranno corpo a un Kammerspiel grandguignolesco con le classiche modalità di Tarantino: flashback, reiterazioni, inserti didascalici per chiarire quanto è accaduto e, appunto, sangue à gogo. Nel film manca un eroe che sia uno e la drammaturgia si sfaccetta e si complica nella pletora dei punti di vista tutti credibili/incredibili prima della mattanza finale.
Dopo Django Unchained (2012) Tarantino resta nel western, negandogli però l’en plein air e rinserrandolo nell’emporio dove quasi tutto il film si svolge con un approccio in definitiva “teatrale” ed “europeo” (molti hanno pensato a And Then There Were None di Agatha Christie). L’America degli spazi sconfinati è contraddetta in radice e tutto si sviluppa/avviluppa negli interiors di un confronto/scontro tra il falso e il vero che si scambiano le parti. Là fuori ci sono una tormenta e una frontiera rediviva, forse un uomo in lotta con la morte, ma l’americanissimo Tarantino non ci crede più. I suoi personaggi in cerca di livore sono gli ultimi epigoni o forse gli echi della wilderness perduta, autentici “bastardi senza gloria”. Eppure, morendo, capita loro di commuoversi per la chiusa epistolare di Abramo Lincoln dedicata alla moglie.
Già, Lincoln e consorte. “Ho promesso alla Signora Lincoln di andare a teatro con lei – furono tra ultime le parole del presidente al suo entourage – è uno di quegli impegni cui non manco mai”. E nel Ford’s Theatre di Washington D.C. Lincoln sarebbe stato assassinato la sera del 14 aprile 1865. La guerra di Secessione era finita pochi giorni prima, e un teatro “entrava” di peso nella storia americana. Così, guardi Tarantino e ripensi a De Gregori: “Se avessi potuto scegliere tra la vita e la morte / tra la vita e la morte, avrei scelto l’America”.
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