Non c’è più alcun dubbio, questi giorni ce li ricorderemo per molto tempo. I rapporti sociali, i processi economici, le relazioni tra Stati che conoscevamo non ci saranno più. Non c’è commentatore politico che non ripeta come una cantilena che quello che stiamo attraversando è il momento più difficile (per ora, aggiungo io) dopo la Seconda guerra mondiale. Non so se il paragone sia corretto, e forse è troppo presto per capirlo, ma se fosse vero sarà necessario, così come allora, riscrivere le regole del nostro vivere comune, del nostro essere società. Bisogna immaginare il mondo di domani, provando a «riconoscere le possibilità non realizzate che sonnecchiano nelle pieghe del presente», utilizzando le parole del filosofo francese André Gorz. Ripensare le regole del vivere insieme vuol dire soprattutto riconsiderare il funzionamento e il ruolo delle istituzioni e il loro essere un bene comune, come spiegava Carlo Donolo (L'intelligenza delle istituzioni, Il Mulino, 1997).
La gestione del Covid-19 dice molto su quali modelli la classe politica europea sta cercando di inseguire e quanti limiti mostrano nella complessità della società liquida. Prendiamo tre immagini che hanno segnato la narrazione della crisi: l’arrivo all’aeroporto di Milano della brigata medica cubana Henry Reeve; la oligarch-tax varata da Putin per contrastare gli effetti economici della diffusione del virus in Russia; la costruzione in soli dieci giorni dell’Ospedale di Wuhan. Questi tre episodi hanno tutti un elemento comune: sono realizzati da governi autoritari di Stati che sacrificano trasparenza, condivisione e democrazia e in cui il rapporto tra Stato e società non è negoziabile. Le azioni intraprese da questi Paesi, tutte condivisibili, hanno solo un problema: non sembrano realizzabili nelle democrazie europee. Negli Stati in cui la democrazia impone un bilanciamento tra poteri dello Stato e diritti dei cittadini, imporre regole rigide, sospendere libertà, chiudere frontiere e intimare comportamenti e stili di vita è molto più difficile sul lungo periodo. Qual è, quindi, l’alternativa degli Stati democratici? Che cosa ne sarà dell’Europa?
L’impatto della pandemia è determinato da tre fattori: lo stato di salute dei sistemi sanitari nazionali, la capacità delle istituzioni di lavorare nell’incertezza e il patrimonio di fiducia di cui dispongono; su questi ultimi due punti gli Stati europei non hanno alternative che chiedere aiuto. Per ritornare al citato saggio di Donolo, le istituzioni non sono soggetti astratti e monocratici, non sono enti estrani da aggirare appena possibile. Le istituzioni sono una casa comune, un luogo condiviso di cui curarsi e da far crescere insieme. Di luccichii di speranza in questi giorni bui ce ne sono stati molti: il senso d’identità dei canti al balcone, l’intelligenza collettiva dei maker che hanno stampato in 3d elementi mancanti dei respiratori, la condivisione di cultura in Rete in maniera libera e gratuita. Se i governi iniziassero a guardare fuori dalle proprie stanze vedrebbero comunità ricche, esperte e capaci di produrre soluzioni, dovrebbero solo iniziare a pensare che queste sono parte stessa delle istituzioni.
Tra le varie forme in cui la società si organizza, una particolare rilevanza è da attribuire alle realtà organizzate che hanno il merito di generare servizi pubblici a elevato impatto sociale: cooperative di comunità, organizzazioni di volontariato, cooperative sociali. Queste realtà non hanno solo il merito di coadiuvare l’offerta di beni e servizi pubblici ma molto spesso lo fanno generando sinergie e reti. Proprio la particolare attenzione al come ha creato inaspettate alleanze tra soggetti diversi. Se per anni il passo indietro del pubblico nell’erogazione dei servizi ha sostanzialmente generato la privatizzazione dei canali di accesso, nell’ultimo decennio questo spiraglio ha permesso lo sviluppo di nuove forme di Welfare che hanno visto una grande centralità della comunità. Parole come co-progettazione, autonomia, rigenerazione hanno intriso il lavoro di questi soggetti e hanno ridisegnato, a partite dal sistema di Welfare, il rapporto tra istituzioni e cittadinanza, tra individuo e collettività tra Stato e comunità.
Ci sarebbe da aspettarsi che la consapevolezza di questo portato possa bastare per mettere al riparo il mondo del terzo settore in questo momento di crisi, ma non è così. In Rete si moltiplicano gli appelli e le petizioni, mentre le urla di aiuto degli operatori trovano ascolto solo nelle iniziative individuali delle fondazioni bancarie; nessuna misura è ancora stata presa dal governo per tutelare e garantire queste realtà. In questa dimenticanza non c’è solo la colpevolezza nel trascurare un pezzo rilevante di economia che conta circa 850 mila occupati, ma dimostra di non aver compreso il portato del cambiamento in atto. La ridefinizione in senso plurale della sfera pubblica necessita che gli spazi di rappresentanza dei bisogni e di offerta di servizi siano mutevoli e generativi. Dimenticare in questo momento il terzo settore vuol dire lasciare per strada un pezzo dello Stato.
Se si vuole avere un futuro come comunità nazionale, è necessario tutelare la dimensione pubblica, che però non è più sovrapponibile con le forme statali o degli enti locali. Insomma, se questa è davvero una guerra come ce la raccontano, bisogna scegliere quali sono i valori per cui combattere. Se cooperazione, solidarietà, condivisione e comunità sono valori che vogliamo portare nel mondo post-pandemia, dobbiamo sceglierlo oggi, partendo dalla difesa degli enti del terzo settore e costruendo istituzioni più intelligenti.
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