Ci sono marce e marce. Le prime furono quelle della Coxey’s Army, durante le quali alcune migliaia di disoccupati marciarono su Washington D.C. nel 1894, al culmine di quella che, per mancanza di peggio, era allora nota come la Grande depressione.

I partecipanti si accamparono appena fuori città, chiedendo al governo un programma di interventi pubblici che creasse posti di lavoro. Il loro leader, Jacob Coxey, parlò della marcia come di una «petition on boots», evocando il diritto di petizione protetto dal Primo emendamento. Il riferimento alle scarpe non gli portò bene, perché fu arrestato per aver calpestato il prato del Campidoglio.

Da allora Washington è diventata la meta di grandi manifestazioni popolari, sempre più ravvicinate nel tempo nel corso del Novecento, molto fitte nell’ultimo mezzo secolo. Cerimonie civili e politiche simili hanno riconosciuto la sempre maggiore centralità del governo federale e quindi della città capitale nel trattare gli affari pubblici della nazione e nel (cercare di) risolvere i problemi dei cittadini. Mettere in scena la propria causa in una grande parata lungo Pennsylvania Avenue, nel National Mall o intorno a Capitol Hill ha voluto dire renderla una questione nazionale, ben visibile a tutti americani.

E così, è successo che nel 1913 sfilassero in città le suffragiste a piedi e a cavallo, in una fase cruciale della lotta per il voto alle donne che avrebbe trionfato di lì a qualche anno. Nel 1925 si videro gli incappucciati del Ku Klux Klan, in una fase cruciale dei conflitti razziali e religiosi. Nel 1932, durante un’altra depressione, quella davvero Grande, arrivarono le decine di migliaia di ex combattenti impoveriti della Bonus Army –accampati in una baraccopoli chiamata Hooverville e poi dispersi, per ordine del presidente Hoover, dalla fanteria e dalla cavalleria del generale Douglas MacArthur.

La March on Washington for jobs and freedom, che tutti ricordano per il celebre discorso di Martin Luther King, è diventata lo standard contro cui tutte le altre si sono misurate

Nel 1963, naturalmente, ci fu la madre di tutte le marce, la March on Washington for jobs and freedom, che tutti ricordano per il celebre discorso di Martin Luther King, «I Have a Dream». Con i suoi 250.000 partecipanti di fronte al Lincoln Memorial, organizzata dai gruppi afro-americani per i diritti civili e dai grandi sindacati multirazziali, trasmessa in diretta dalla televisione al Paese e al mondo (grazie al nuovo satellite Telstar), è diventata il modello di successo, lo standard contro cui tutte le altre successive si sono misurate – in genere risultando mancanti di qualcosa.

Le marce successive sono state così numerose e per cause così disparate da diventare di routine e quindi, molto spesso, invisibili. Non è difficile ricordarne alcune significative. L’assedio al Pentagono del 1967, contro la guerra in Vietnam. Le manifestazioni per i diritti delle donne degli anni Settanta, quelle per i diritti degli immigrati a cominciare dal 1996. La Million Man March del 1995, organizzata dalla Nation of Islam di Louis Farrakhan per l’orgoglio del maschio nero. Le proteste contro la guerra in Iraq a cominciare dal 2002. Di altre non c’è memoria o ce n’è davvero poca: la lista è infinita, ci sono voci di enciclopedia che le raccolgono tutte.

L’impatto politico di queste marce è stato, più che su immediati e concreti risultati legislativi o cambiamenti di policy, sulla percezione pubblica dell’importanza della causa. E naturalmente sulla percezione di sé dei partecipanti – che lì hanno scoperto per contatto fisico di essere tanti, parte di grandi movimenti collettivi, e ne hanno ricavato energia e motivazioni personali. La loro funzione principale, insomma, sembra essere quella di compattare e rassicurare i fedeli piuttosto che di convertire gli scettici.

La funzione principale di queste marce sembra essere quella di compattare e rassicurare i fedeli piuttosto che di convertire gli scettici

Nel valutare l’importanza di una marcia, molto dipende da ciò che succede prima e dopo, e nel resto del Paese. Se cioè la marcia è un evento discreto, magari di proporzioni consistenti ma senza radici profonde, una risposta istintiva ed eclatante (e per molti versi facile) a un fatto scioccante, che lascia poco dietro di sé. Oppure se è un momento apicale di un lavoro organizzativo di base, di lungo periodo, di ampio respiro, che nasce da una rete stabile e duratura di rapporti e impegni o se comunque, al limite, è capace di fondarne una. Questo secondo è sicuramente il caso dell’iconica marcia del 1963, cuore di un complesso movimento.

Se tale sia il caso, e in che misura, delle due ultime marce di successo e di massa resta da vedere. Mi riferisco alla Women’s March dell’anno scorso (21 gennaio 2017), in reazione all’elezione di Donald Trump, che portò un milione e mezzo di donne a Washington e altrettante in vari luoghi degli Stati Uniti. E poi alla vera novità aurorale dell’altro giorno (24 marzo 2018), la March for Our Lives, in risposta all’ennesima strage per armi da fuoco in una scuola, e quindi per chiedere forme efficaci di gun control, che ha coinvolto milioni di studenti e loro amici nelle strade della capitale e di tante altre città. La marcia delle donne poggia su un terreno piuttosto solido, con una storia. Quella degli studenti, chi lo sa. La sua storia sembra tutta da inventare.

[Questo articolo è stato pubblicato anche su Short Cuts America]