Il New Deal di Barack Obama? Stando a una nota emanata la scorsa settimana dall’Ufficio Budget del Congresso americano, il programma di spesa previsto dalla Finanziaria di Obama comporterebbe un deficit di bilancio effettivo superiore di 2.300 miliardi di dollari rispetto a quanto preventivato dalla Casa Bianca per il prossimo decennio.

In attesa di chiarimenti su questo punto nodale, è comunque possibile stilare una prima valutazione di tale piano, tenendo conto che esso è ancora in piena fase di rielaborazione, tra accesissime discussioni pubbliche.

 Delle tre direttrici in cui si articola il piano, sulla prima, quella delle misure di stimolo all’economia, il presidente ha strappato i maggiori consensi. Il pacchetto comprendente vasti programmi di lavori pubblici, aiuti agli indigenti e sostegno alla ricerca e allo sviluppo di energie alternative, è in effetti il progetto progressista più ambizioso e organico apparso sulla scena statunitense da Lyndon B. Johnson in poi. E solo la chiusura ideologica repubblicana e la minore gravità della situazione odierna rispetto a quella dei primi anni Trenta del Novecento, spiegano come, a differenza di quanto accadde con Franklin D. Roosevelt, esso si sia scontrato con la recisa chiusura dell’opposizione.

Molto più controverso il secondo tema, relativo alla questione finanziaria e bancaria. Rispetto ad esso si accentua ogni giorno la polemica che riguarda i risultati, sinora assolutamente negativi, dei salvataggi praticati a partire dall’autunno scorso; le sanzioni da applicare ai vertici manageriali coinvolti; la necessità o meno di procedere alla nazionalizzazione delle banche. Con sullo sfondo un doppio handicap, per il paese e per l’amministrazione: nessuno sembra in grado di stringere i mille rivoli del "buco" dei sub-prime in un quadro unitario e tra coloro che avrebbero dovuto controllare il rispetto delle regole, peraltro molto allentate da Reagan in poi, ci sono figure di primo piano dell’amministrazione attuale come il ministro del Tesoro, ed ex presidente della Federal Reserve di New York, Timothy F. Geithner. Per il quale si preannunciano giorni caldi visto che dovrebbe al più presto presentare una versione riveduta del piano di intervento, già pesantemente criticato da più parti, a favore delle istituzioni finanziarie investite dai titoli "tossici", e contemporaneamente rispondere a una commissione d’inchiesta della Camera sul ruolo da lui svolto nella vicenda dei premi versati ai supermanager della compagnia assicurativa American International Group, società mandata in rovina da quegli stessi manager e salvata con i denari dei contribuenti. Ciò rinvia al tema strutturale della assoluta necessità per l’amministrazione democratica di rimettere le mani in modo profondo nella macchina regolativa. Una macchina pesantemente manomessa nell’ultimo quarto di secolo, anche col concorso decisivo di Bill Clinton, il quale, nell’euforia degli anni Novanta, revocò la cruciale legge newdealista Glass-Steagall che separava operazioni di deposito e di investimento.

Il nome del presidente democratico, del resto, evoca, col ricordo del coraggioso, ma fallimentare, tentativo di riforma del sistema sanitario da lui praticato, il terzo nodo decisivo delle politiche economiche e di spesa obamiane. Una questione, quella della sanità, rispetto alla quale si dice sia vicina la presentazione di un piano dettagliato da parte dell’amministrazione, come impongono gli enormi costi economici e sociali dell’attuale sistema (17% del reddito nazionale, con oltre un settimo della popolazione senza alcuna copertura) destinati ad aggravarsi con la crisi. Saranno dunque molte le occasioni nei prossimi mesi per verificare sia la capacità del neo-presidente di mostrarsi degno dei paragoni col "pragmatismo" newdealista di Roosevelt, sia la profondità del favore che la maggioranza dell’opinione pubblica statunitense dimostra, stando ai più recenti sondaggi, per un sostanzioso intervento pubblico negli affari economici.