Cittadini in armi. "U.S. Military Will Offer Path to Citizenship", questo il titolo di un articolo apparso in prima pagina su NYT del 15 febbraio 2009. Il sottotitolo, "Temporary Immigrants are program's Focus", segnala un interessante cambiamento nella politica americana, una significativa inversione di tendenza rispetto alle politiche messe in atto nei confronti degli immigrati dopo l'11 settembre e un ulteriore allontanamento da quanto in tema di immigrazione e cittadinanza accade sul continente europeo.
Otto anni dopo l'11 settembre e di fronte all'enorme impegno che l'esercito americano deve sostenere sui diversi fronti più o meno caldi dell'Afghanistan o dell'Iraq (dal quale però è stato annunciato un completo ritiro entro il 2010), gli Stati Uniti ritornano "alle origini", ad una politica della cittadinanza che rimette al centro la volontà dell'individuo di far parte della nazione. Dopo il "deragliamento" della guerra al terrorismo che con il Patriot Act aveva rischiato di far prevalere una concezione "etnica" della cittadinanza (su questo si può leggere il bel libro di David Cole, Enemy Aliens: Double Standards and Constitutional Freedoms in the War on Terrorism, New York, 2003) gli Stati Uniti, anche se sotto l'urgenza di garantire il ricambio delle truppe americane, si ripropongono come un paese aperto e inclusivo, che si adatta alle nuove schiere di immigrati diventando tra l'altro sempre più bilingue (lo spagnolo è lingua ormai sempre più diffusa nella cartellonistica, negli annunci delle stazioni dei treni o della metropolitana e nei servizi al pubblico delle società private e della pubblica amministrazione). Nella nuova era degli eserciti sempre più professionali e "volontari" la cittadinanza non è più un requisito indispensabile per servire la patria ma ne è la conseguenza. È, sembra questo il messaggio lanciato, il premio, la strada più veloce e sicura per diventare cittadini e quindi per guadagnarsi non tanto il diritto di voto o quello all'assistenza o a uguali diritti, ma quello a far parte del sistema sociale, a risiedere in un paese che, nonostante la grande crisi che lo sta scuotendo, rimane, nel discorso pubblico, il paese delle infinite opportunità, come continua a ripetere il presidente Barack Obama in tutte le sue apparizioni.
Certo è un modo per entrare dalla finestra anziché dalla porta, una cittadinanza che si paga al prezzo molto elevato di mettere a repentaglio la propria vita e non deve ingannare troppo la retorica con cui il generale Freakly illustra il progetto: entrare nell'esercito americano "to get on a ramp to the American dream". E tuttavia rimane significativo che la "nazione in armi" sia un prodotto e non un prerequisito e che gli Stati Uniti continuino a navigare in direzione opposta ad una Europa che tende a chiudersi a e mal dirigere i propri immigrati (si vedano gli interessanti risultati di una ricerca sull'esclusione in A. Gordzeisky e M. Semyonov, Terms of exclusion: public views towards admission and allocation of rights to immigrants in European countries, in "Ethnic and Racial Studies", 32, n. 3, March 2009, pp. 401-423).
Con questa proposta si pensa di reclutare circa 14.000 persone all'anno (un sesto circa delle nuove reclute). 14.000 soldati quindi, ma anche 14.000 nuovi cittadini, scelti tra gli immigrati regolari che risiedono negli USA da almeno due anni, una bella iniezione di giovinezza in un paese che non ha paura dell'immigrazione e che soprattutto anche per questa strada si protegge dalla crisi demografica e dall'invecchiamento della popolazione che colpisce le affannate democrazie europee.
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