Class action di genere. Quando lo scorso 20 giugno la Corte Suprema degli Stati Uniti ha rigettato la causa avviata da circa un milione e seicentomila donne che lavoravano o avevano lavorato per la Wal-Mart e che la accusavano di discriminazione di genere, non è stata semplicemente posta la parola fine alla più importante class-action in materia di rapporti di lavoro nella storia americana; sono stati messi in discussione oltre quarant’anni di giurisprudenza nel campo del contrasto alle discriminazioni. Secondo le lavoratrici, la politica di Wal-Mart – la più grande compagnia al mondo nel settore della vendita al dettaglio – aveva prodotto un numero indefinito di atti discriminatori in materia di paghe e promozioni. I dati raccolti mostrano, ad esempio, che le donne occupano solo il 33% delle posizioni di responsabilità, nonostante costituiscano circa il 70% della forza lavoro. Il personale femminile riceve salari inferiori a qualsiasi livello, sebbene possa vantare valutazioni della performance migliori di quelle maschili. I reparti sono “segregati per genere”, con stipendi più alti per i settori a prevalenza maschile. L’evidenza statistica è confermata dalle testimonianze individuali raccolte. Dal canto suo, la Wal-Mart ha replicato che, se una politica discriminatoria nei confronti delle donne poteva essere esistita in passato, oggi l’azienda si è dotata di un codice anti-discriminatorio; pertanto, gli episodi denunciati dovevano essere ricondotti alle responsabilità dei singoli manager. Tuttavia, come sostiene lo storico Nelson Lichtenstein, la discriminazione di genere alla Wal-Mart deriva da una “struttura sistematicamente autoritaria”. Costi del lavoro compressi, elevata flessibilità, comportamenti antisindacali, ampia discrezionalità per i manager locali, settimane lavorative di 50 ore (che possono diventare 80 o 90 nei periodi festivi), trasferimenti in sedi lontane molte miglia dal luogo di residenza: un complesso di pratiche che svantaggiano soprattutto le donne, specialmente quelle di mezza età e con figli.
Le lavoratrici, guidate dalla combattiva Betty Dukes, una pastora di Pittsburgh, chiedevano tre cose: che la Wal-Mart sospendesse i comportamenti discriminatori, che adottasse pratiche eque e che riconoscesse risarcimenti economici per le perdite di salario causate dalle discriminazioni. La Corte Suprema, tuttavia, ha deciso all’unanimità che il ricorso doveva essere respinto per una scorretta applicazione della legislazione sulla class-action nelle istanze inferiori del processo. Guidata dal giudice conservatore Antonin Scalia, la maggioranza della Corte ha inoltre stabilito che gli esempi di discriminazione e i dati presentati dalle ricorrenti non erano sufficienti a dimostrare che la Wal-Mart avesse una “politica d’impiego uniforme” a livello nazionale che causava la discriminazione, e che, pertanto, le donne non avevano il diritto a costituirsi in giudizio come “classe”.
La sentenza è destinata a condizionare pesantemente il destino delle class-action in materia di rapporti di lavoro, in particolare di quelle avviate per discriminazione (non solo di genere), dato che la Corte Suprema ha limitato fortemente i casi nei quali le vittime possono essere identificate come “classe” e, quindi, ricorrere in giudizio collettivamente. La sentenza spingerà i singoli a procedere individualmente o in piccoli gruppi; questo aumenterà i costi, ridurrà il potere contrattuale dei ricorrenti e gli incentivi, per avvocati e associazioni, a rappresentarli. Per questo, se da una parte gli avvocati di Wal-Mart e la Chamber of Commerce – l’organizzazione delle imprese – hanno salutato la sentenza come una vittoria, dall’altra le associazioni delle donne, i sindacati, i consumatori e il mondo progressista l’hanno accolta con preoccupazione e rabbia. Secondo il magazine The Nation, la decisione rappresenta “una grande vittoria per Wal-Mart, per le grandi corporation che in ogni luogo sperano di non essere citate in giudizio e, non da ultimi, per gli ideologi di destra che odiano vedere il libero mercato bloccato in dispute sulla correttezza e la giustizia sociale”. Ma, dato che non tutti i mali vengono per nuocere, l’epilogo di Dukes v. Wal-Mart può insegnare che, come ha sottolineato Liza Featherstone, “il cambiamento non può venire solo dalle aule di giustizia”. Anche Wal-Mart potrebbe infatti scoprire che una ferma opposizione sociale e politica, unita all’avversione dei consumatori, può essere più dolorosa di un processo.
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