Un testa a testa per 1600, Pennsylvania Avenue. Il confronto televisivo a Boca Raton, in Florida, tra Obama e Romney ha chiuso la serie di dibattiti che ha scandito la campagna presidenziale statunitense. Tema centrale è stato la politica estera, sulla quale, a differenza del secondo dibattito dedicato alle questioni interne, i due candidati sono apparsi ben poco distanti rispetto a molte issues, benché il presidente uscente sia apparso senza dubbio più convincente del rivale repubblicano. Secondo un sondaggio Gallup pubblicato su “Usa Today”, infatti, il 56% dei telespettatori ha indicato Obama come vincitore della sfida di Boca Raton (contro il 33% favorevole a Romney).
Nel corso del confronto televisivo il candidato repubblicano si è mostrato insolitamente cauto e meno aggressivo. Lo è stato, in particolar modo, quando si è parlato di Medioriente, dal nucleare iraniano alle rivolte arabe, dalla guerra in Afghanistan a quella in Iraq. Romney ha espresso il suo accordo con la politica della presidenza in carica di un ritiro completo delle truppe statunitensi dall’Afghanistan e, al contempo, ha criticato Obama proprio per non aver mantenuto la promessa elettorale fatta nel 2008: un totale disimpegno sul fronte iracheno. Sulla scia di tale convergenza, il candidato repubblicano si è definito contrario a un eventuale invio di truppe statunitensi in Siria e ha dichiarato di considerare la possibilità di un intervento militare solo come l'ultima strada percorribile, per evitare che l’Iran entri in possesso di armi nucleari. Come aveva già fatto Obama, Romney ha espresso il proprio assenso all’utilizzo di sanzioni internazionali.
Una convergenza molto pronunciata, quella emersa a Boca Raton tra i due candidati, tanto da apparire lapalissiana la volontà di Romney di distanziarsi dalle politiche del predecessore repubblicano George W. Bush. A ben vedere, il dibattito sulla politica estera è stato condotto con uno sguardo sempre rivolto a quella interna, i cui temi sembrano pesare in maniera preponderante sulle intenzioni di voto degli elettori statunitensi.
È in questo contesto che va analizzata l'“insolita” moderazione di Romney. Il candidato repubblicano non sembra avere in tasca una strategia realmente alternativa a quella di Obama, pare piuttosto mirare a raggiungere obiettivi a breve termine. Il fine non dichiarato è stato, e resta, evidente: rassicurare il pubblico moderato che la sua presidenza non coinvolgerà il Paese in un nuovo conflitto, i cui costi, in termini umani e finanziari, gli elettori non sono più disposti a sostenere. Al contempo, con una simile moderazione, Romney ha cercato di “corteggiare” anche il voto femminile, più incline a supportare l’utilizzo di mezzi diplomatici per mantenere la pace.
La sfida del repubblicano è, dunque, quella di invertire il trend che aveva caratterizzato il voto del 2008, quando Obama aveva ottenuto quasi sei voti su dieci tra le donne americane. Il peso decisivo della politica interna nella fase finale di questa campagna elettorale è dimostrato anche dal fatto che Obama negli ultimi giorni si è concentrato soprattutto sulla spesa pubblica, dichiarando di voler rispondere a questo problema nei primi sei mesi del prossimo mandato. Il presidente in carica è intervenuto anche sulla legislazione relativa all’immigrazione, tema non affrontato durante l’ultimo dibattito. Un chiaro tentativo, questo, di influenzare il voto dei latinos in due degli Stati ancora in bilico, Colorado e Nevada. Allo stesso modo va interpretato l’attacco di Romney, in Virginia, alle politiche ambientali di Obama, con il quale ha cercato il consenso dei lavoratori del settore carbonifero nelle regioni degli Appalachi.
I cosiddetti swing States, infatti, costituiscono l’elemento in grado di determinare la vittoria dell’uno o dell’altro candidato. Florida, Virginia e Ohio potrebbero riservare ancora un cambio di rotta in queste ultime due settimane prima dell’Election day. La decisione di concentrarsi su determinati temi, poi, fa il paio con quella di evitarne accuratamente altri, come i problemi relativi al cambiamento climatico – nonostante una recente dichiarazione di Obama di voler investire maggiormente nelle fonti alternative – e l’emergere di nuove potenze come la Cina, l’India o il Brasile. O, ancora, l’annosa questione della prigione di Guantanámo, la cui chiusura era parte del programma elettorale già quattro anni fa. Quest’ultima, insieme ad altre promesse disattese, ha contribuito senza ombra di dubbio ad allontanare quella base elettorale che nel 2008 aveva così caldamente sostenuto il presidente in carica. La parzialità di quel “cambiamento”, Leitmotiv della scorsa campagna elettorale di Obama, è brandita da Romney proprio come prova del fallimento dell’amministrazione attuale.
Gli ultimi sondaggi vedono Obama e Romney coinvolti ancora in un frenetico testa a testa. L’immediata risposta e la gestione dei danni causati dall’uragano Sandy, però, hanno convogliato su Obama apprezzamenti bipartisan, come quelli del governatore repubblicano del New Jersey, Chris Christie, solitamente molto critico nei confronti dell’amministrazione attuale, che ha ringraziato il presidente per l’immediata dichiarazione dello stato di calamità per il New Jersey. In una situazione di sostanziale parità, dunque, questi ultimi giorni prima del 6 novembre saranno decisivi per individuare il prossimo inquilino del 1600 di Pennsylvania Avenue.
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