A cinque settimane dal voto l’esito delle elezioni presidenziali americane resta incerto. Hillary Clinton è in leggero vantaggio su Donald Trump, ma non è riuscita a chiudere la partita. Ci sono stati momenti in cui questo è sembrato possibile: per esempio agli inizi di agosto, subito dopo le convenzioni repubblicana e democratica, il vantaggio di Hillary nel poll of polls (vale a dire la media dei sondaggi) ha sfiorato i dieci punti percentuali. Tuttavia, ogni volta Donald Trump è riuscito a recuperare e a riportarsi a ridosso della concorrente democratica.
Da una parte, nelle ultime settimane, le e-mail, le donazioni controverse alla Fondazione Clinton e il possibile traffico d’influenza a esse legato, nonché, più recentemente, i problemi di salute, hanno indebolito la posizione di Hillary Clinton. Dall’altra parte, un Donald Trump più disciplinato, meno prono a controversie personali, più focalizzato sulle questioni economiche e sociali (aiutato in questo dalla debole crescita statunitense – inferiore a quella europea – nella prima metà dell’anno e da delocalizzazioni nell’odiato Messico da parte di alcune imprese manifatturiere statunitensi) e sui veri o presunti fallimenti di Obama e Clinton in politica estera e nella lotta contro il terrorismo, è riuscito a ricompattare la propria base e riaffermare le proprie credenziali anti-establishment.
Vi sono però anche tendenze più profonde che spiegano le ragioni della capacità di recupero di Trump. Il candidato repubblicano può infatti contare su uno zoccolo duro di votanti (in prevalenza maschi bianchi con basso titolo di studio) che sono pronti a votarlo in massa, perché è il candidato anti-establishment che si batte per proteggere coloro che sono stati colpiti dalla globalizzazione in senso lato (vale a dire sia in termini di perdita di posto di lavoro e/o di riduzione/stagnazione del salario reale). In fondo, il messaggio di Trump è efficace nella sua semplicità: non si tratta di ridistribuire la ricchezza all’interno degli Stati Uniti, ma di far pagare al resto del mondo l’aumento dei salari e dell’occupazione, nonché le riduzioni d’imposta, che egli intende ottenere nel caso di una sua elezione. E il resto del mondo non può opporsi ad una tale redistribuzione perché nell’ultimo quarto di secolo ha approfittato della largesse americana e dell’inettitudine delle sue élite per siglare trattati commerciali (Nafta, Cafta, Tpp) contrari agli interessi dei lavoratori e delle imprese statunitensi.
Se a questo messaggio anti-establishment, tanto semplice ed efficace quanto demagogico, si aggiungono i messaggi più tradizionali della destra conservatrice americana (ma il cui appeal va al di là di essa: legge e ordine, lotta all’immigrazione clandestina, più risorse alle forze armate, rigetto del politically correct, ecc.) si può comprendere come Trump sia in un certo qual modo inaffondabile nonostante gli scandali personali, le dichiarazioni oltraggiose e le incoerenze del suo programma elettorale. In queste elezioni presidenziali anomale, Trump viene votato non per quello che è (se così fosse, non avrebbe mai superato le primarie repubblicane), ma per quello che i suoi sostenitori pensano/si illudono possa rappresentare. Trump diventa allora nell’immaginario dei suoi potenziali elettori il businessman di successo, duro e determinato, in grado di porsi al di sopra dei giochi politici di Washington e di controllarne la burocrazia; il leader capace di rendere America First, nel doppio senso del termine: ripristinare la supremazia statunitense (attraverso una combinazione che comprende maggiori spese militari e politiche isolazioniste), ma anche anteporre gli interessi statunitensi a quelli degli alleati o dei partner commerciali (o a quelli del pianeta tout court, come traspare chiaramente dall’opposizione alla ratificazione degli accordi sul cambiamento climatico).
Tuttavia, se per queste ragioni Trump è inaffondabile, ciò non significa che sia imbattibile. Da una parte, con le sue dichiarazioni politicamente scorrette, è riuscito a inimicarsi tutte le minoranze statunitensi (afroamericani, latinoamericani, asiatici, arabi), dall’altra con i suoi comportamenti machisti non ha fatto granché per ottenere il sostegno femminile e sta perdendo terreno anche tra gli elettori bianchi con un elevato titolo di studio (che si rendono conto come molte delle proposte di Trump siano irrealizzabili e/o pericolose). Last but not least, le giovani generazioni – i Millenials – sono meno attratte dal messaggio egoistico-isolazionista del candidato repubblicano. Trump resta minoritario nel Paese. Questo però non significa che Hillary Clinton abbia la vittoria in tasca. Il suo problema è che, essendo percepita come la candidata dell’establishment e portandosi dietro un pesante bagaglio dovuto a un quarto di secolo di politica vissuta al top (first lady, senatrice di New York, segretario di Stato), appesantito ulteriormente da una serie di leggerezze ed errori abbastanza sorprendenti per un politico con la sua esperienza e ambizioni, soffre di un problema di credibilità e ha chiare difficoltà a mobilitare il proprio elettorato potenziale, che è sicuramente più ampio di quello di Donald Trump. Questo è dimostrato per esempio dal fatto che nelle ultime settimane l’appoggio dei Millenials per Hillary si è ridotto sensibilmente, a favore del candidato libertario e della candidata verde.
Hillary Clinton è cosi arrivata al primo dibattito presidenziale con più da perdere rispetto a Donald Trump. Anzitutto perché le attese erano che, data la sua esperienza politica ed il fatto che aveva sostenuto tali dibattiti in precedenza, avrebbe fatto meglio del candidato repubblicano. Di conseguenza, anche una patta sarebbe stata una sconfitta in termini d’immagine. In secondo luogo perché una sua sconfitta rischiava di demoralizzare sostenitori ed attivisti, già scossi dalla spiacevole sorpresa del suo (temporaneo) collasso fisico due settimane prima a New York. Infine, le dinamiche dei sondaggi delle ultime settimane erano a favore di Trump. Se queste tendenze fossero continuate (e casomai fossero uscite rafforzate dal primo dibattito) la possibilità di invertirle nel poco tempo che restava rischiava di essere un’impresa particolarmente ardua.
Clinton ha però vinto il primo dibattito. Nonostante abbia perso il confronto sull’economia e sulle politiche commerciali, ha finito per prevalere negli altri temi (politica estera, tensioni razziali, qualità per essere presidente). Più importante ancora è riuscita abilmente a mettere sulla difensiva Donald Trump e portarlo off-message. Quest’ultimo si è così nuovamente impantanato in diatribe personali quali la questione della dichiarazione dei redditi (che rifiuta di rendere pubblica) ed il modo con cui ha apostrofato una Miss Universo latinoamericana che aveva preso un po’ troppo peso dopo la sua elezione («Miss Piggy» e/o «Miss Colf»). Nel frattempo, la candidata democratica ha continuato a incalzarlo sia sul programma che sulla sua idoneità a diventare presidente.
Hillary Clinton ha così ripreso tre punti di vantaggio nel poll of polls. Un vantaggio non trascurabile (anche in seguito al fatto che è in testa in alcuni stati chiave), ma tutt’altro che sufficiente per dichiarare vittoria anzitempo. Questo perché non solo The Donald è inaffondabile, ma anche perché in un’elezione anomala come quella in corso, i sondaggi non sono troppo affidabili e possono anche innescare dinamiche impreviste. A questo riguardo, il peggio che possa accadere a Hillary Clinton è una ripetizione di quello che è già avvenuto alle elezioni politiche italiane del febbraio 2013 e nel referendum inglese del giugno scorso. In presenza di sondaggi che la danno in vantaggio, la parte meno fedele e più scontenta del suo elettorato (le cui dimensioni sono tutt’altro che trascurabili), dando per scontata la sua vittoria, potrebbe all’ultimo decidere di non andare a votare o votare per uno dei candidati alternativi. Se a questo si aggiunge il fatto che una parte dell’elettorato potrebbe dichiararsi per Trump solo nel segreto dell’urna, arrivare alla vigilia delle elezioni con un lieve vantaggio nei sondaggi potrebbe essere addirittura peggiore di essere in parità virtuale, perché in quest’ultima situazione ci sarebbe una più forte mobilitazione dell’elettorato democratico e indipendente per sbarrare la strada a Donald Trump. Anche se non si può escludere che Hillary Clinton possa chiudere la partita prima dell’8 novembre (soprattutto se dovesse vincere anche i due dibattiti che restano), al momento l’esito della battaglia per la Casa Bianca resta più che mai aperto.
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