Le sfide dei negoziati sulla Siria. Nella capitale austriaca si svolgono i nuovi incontri tra gli Stati che sono maggiormente coinvolti nella guerra in Siria. Negli scorsi anni si erano svolti incontri simili a Ginevra, con obiettivi simili: mettere fine al conflitto armato che da cinque anni dilania il Paese mediorientale e che ha causato almeno 300mila morti, sette milioni di siriani costretti a lasciare la propria casa (uno su tre), e una serie di violenze individuali e collettive che hanno lacerato il tessuto sociale e politico del Paese. Se non irrimediabilmente, quantomeno in modo durevole.
Rispetto agli incontri passati, due sono le differenze: una presenza e un'assenza. La nuova presenza riguarda l'Iran, che dopo l'accordo sul nucleare dello scorso luglio, ritorna finalmente a essere riconosciuto come interlocutore legittimo anche dai suoi rivali statunitensi e, obtorto collo, arabi. Del resto, chiunque abbia mai avuto minima consapevolezza dei rapporti di forza politici e militari in Siria sapeva che senza il coinvolgimento dell'Iran non si può giungere ad alcuna soluzione né militare né negoziata. In questo senso, la diplomazia italiana si era sempre espressa per l'inclusione di Teheran, dovendo però attendere l'esito della questione nucleare. Il coinvolgimento dell'Iran è espressione della situazione sul campo: l'iniziativa militare e diplomatica della Russia vuole accelerare e semplificare una guerra di logoramento che dopo cinque anni non vede ancora alcun vincitore. Le azioni di Mosca si basano sulla convergenza politica con l'Iran; i primi sostengono l'esercito siriano con l'aviazione e presidiano i porti sul Mediterraneo, i secondi combattono sul campo assieme ad Hizb'allah libanese. L'obiettivo è comune: sostenere il regime siriano per evitare il collasso delle istituzioni statali laddove esistono, e semplificare il quadro politico trasformando la guerra in uno scontro bipolare tra «terroristi» dello Stato e organizzazione dello Stato islamico ed al-Qaida. In questo modo, mettono all'angolo Turchia, Arabia Saudita, Usa e Paesi europei che sostengono, o credono, nelle parti «terze» delle cosiddette «forze moderate». I curdi siriani, autonomi, attendono, osservano e consolidano le proprie zone.
L'assenza riguarda, invece, le forze siriane. Non vi sono inviti ufficiali di rilievo, a dimostrazione di come la situazione si sia deteriorata nel tempo, e di come la diplomazia internazionale sia giunta alla conclusione per cui, al momento, l'unico modo per mettere un freno alla guerra sia quello di «imporre» alle forze siriane una soluzione o una tregua negoziata. Parlare e negoziare sulla Siria senza i siriani è indicativo della situazione politica. Da un lato, la figura di Bashar al-Assad è talmente oggetto di divisione che la sua permanenza o meno al potere durante una fase transitoria sembra essere l'elemento dirimente. Non è da escludere, però, che i suoi sostenitori a Mosca e Teheran possano decidere di «sacrificarlo» nel processo di transizione nel momento in cui il grosso dell'esercito e dell'apparato statale siano garantiti, assieme dunque all'orientamento filo-russo e filo-iraniano della Siria. Tuttavia, qui almeno c'è un rappresentante unico. Dall'altro lato, è oggettivamente difficile trovare nelle diverse «coalizioni» delle opposizioni un rappresentante politico delle forze militari sul campo: ad esclusione dell'organizzazione dello Stato islamico, esiste un continuum tra «forze moderate» e jihadisti che combattono spesso assieme contro il nemico comune di Damasco e Daesh. E riconoscere come partner e interlocutore legittimo al-Qaida in Siria o suoi simili è cosa ardita.
Ad ogni modo, l'escalation della presenza militare dell'Iran ha comportato la diffusione tra le opposizioni dell'idea per cui la lotta contro il regime sia ora una lotta per la «liberazione contro l'invasore persiano»: troviamo qui l'eco del nazionalismo arabo più sciovinista che si coniuga con l'islamismo salafita per cui la guerra in Siria è parte della lotta ancestrale tra arabi e persiani, tra Islam sunnita e sciita. L'adozione di questo discorso, di questa narrazione, sposta i ribelli su posizioni ideologiche e radicali che impediscono qualsiasi negoziato; esattamente come il regime, per cui tutti i ribelli sono «terroristi» o «banditi». I fondamenti del conflitto in Siria sono interni al Paese: per quanto potenti e radicati siano gli interventi e le ingerenze straniere sono essenzialmente i siriani che si combattono tra di loro: anzitutto, si tratta di una «guerra civile» dalle conseguenze regionali ed internazionali. Riconoscerla come tale comporta accettare che il proprio nemico era parte della stessa comunità politica; seppur con diverse responsabilità, è in questa che sono cresciute e da questa sono derivate le peggiori espressioni di violenza politica.
I diplomatici presenti a Vienna hanno quindi di fronte sfide enormi: convincersi a vicenda che nessun Paese potrà rivendicare a sé la Siria, o parti di essa, in modo esclusivo; convincere i propri alleati siriani che nessuno di loro potrà vincere militarmente; convincerli che i propri nemici sono gli (ex) vicini di paese, di quartiere, di casa. Infine, forse, che l'istituzione delle autonomie locali territoriali (e non confessionali o linguistiche) non conducono necessariamente alla secessione ma possono essere gli spazi di processo di ricostruzione democratica di una comunità politica e sociale. Esempi sul campo ce ne sono stati e ce ne sono ancora: basta saperli riconoscere e valorizzare.
[Questo articolo è pubblicato anche su Mentepolitica]
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