Da quando, sulle ceneri dell’Impero ottomano, le potenze europee tracciarono i confini degli odierni Stati arabi, non si era mai assistito nella regione del Vicino Oriente a un insieme di crisi politiche così diffuso e profondo. Lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante è divenuto in meno di un anno una delle maggiori minacce alla sicurezza globale. La Libia riaffiora periodicamente come un Paese sull’orlo del collasso – soglia che ha probabilmente già varcato da molto tempo.
Nelle ultimissime settimane è lo Yemen a essersi trovato sotto i riflettori, come polveriera di una guerra civile islamica tra sunniti e sciiti. La crisi siriana è sempre più incancrenita, cruenta e apparentemente senza via d’uscita. Il Libano resta eternamente in bilico. L’intera regione appare in frantumi e sembra impossibile definire linee di demarcazione chiare, identificare alleati e nemici, formulare ipotesi credibili riguardo agli scenari futuri. Da qui il disorientamento e le esitazioni delle diplomazie, l’affanno a giocare su più tavoli, la tentazione illusoria del disimpegno.
Se vogliamo recuperare il proverbiale bandolo della matassa, non dobbiamo dimenticarci quando e perché è iniziato tutto, ossia con le rivolte arabe del 2010-2011. Quelle sollevazioni ci colsero di sorpresa e rivelarono l’enorme distanza tra il “Vicino Oriente narrato” – da giornalisti, politici, sedicenti analisti – e il “Vicino Oriente reale”, nel cui ventre covavano movimenti profondi di contestazione dello status quo.
Eppure abbiamo imparato poco da quella sorpresa. Continuiamo a interpretare gli avvenimenti nel mondo arabo-islamico con le stesse categorie semplificatorie. Spesso, queste sono di matrice culturalista, come quella – apparentemente inoppugnabile – di un conflitto ormai inarrestabile tra islam sunnita e islam sciita. Uno scisma millenario, si dice, un odio atavico come solo quello tra fratelli può essere. Certamente una frattura confessionale interna al mondo musulmano sussiste, genera minacce reali e percepite, suscita reazioni, dà forma alle politiche dei governi. Ma se la frattura fosse così netta, perché l’Iran sciita continuerebbe ancora a sostenere i sunniti di Hamas? Non si capirebbe nemmeno perché ben sei Paesi sunniti (Giordania, Marocco, Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Emirati Arabi) facciano ufficialmente parte della coalizione internazionale che combatte l’Isis – movimento con un’identità marcatamente sunnita – sostenendo la riconquista del territorio da parte dell’esercito iracheno (a maggioranza sciita) coadiuvato dalle forze speciali iraniane.
La lotta tra Arabia Saudita e Iran va allora letta in termini di pura politica di potenza? Forse questa rimane una chiave di lettura più valida di quella meramente culturalista. Ma è il punto di vista a dover cambiare. Una prospettiva sistemica, che guarda solo al gioco delle rivalità e delle alleanze tra Stati, all’"alta politica" della diplomazia, che giudica l’evoluzione socio-economica in base alle statistiche macroeconomiche, che si preoccupa esclusivamente delle alchimie all’interno delle classi dirigenti, è fuorviante. Le dinamiche che stanno travolgendo i Paesi del Vicino Oriente hanno ragioni prevalentemente endogene, sulle quali si innestano le reazioni da parte di attori esterni che identificano minacce e finestre d’opportunità, e i cui interventi a loro volta mettono in moto dinamiche proprie – il caso del “mostro” Isis è emblematico di questo senso.
Un secondo atteggiamento che va definitivamente superato è la tentazione irresistibile a ridurre la complessità ad una serie di dicotomie – sciiti-sunniti, conservatori-progressisti, laici-islamisti, filo e anti-occidentali – che soddisfano uno spirito del tempo ansioso di identificare schieramenti a cui aderire, ma conducono a contraddizioni paradossali. Le difficoltà della diplomazia americana a conciliare i negoziati sul nucleare iraniano con la tutela della sicurezza di Israele e il mantenimento dell’asse con l’Arabia Saudita testimoniano l’inadeguatezza di una logica binaria rispetto all’attuale politica mediorientale.
Una delle dicotomie evocate più di frequente tra gli osservatori di questa regione è quella che, in un saggio sul “Mulino” in uscita oggi , ho definito come il “vicolo cieco del mondo arabo”. Mi riferisco al vicolo cieco in cui, dagli anni Novanta, si sono incagliati i processi di democratizzazione avviatisi nel mondo arabo. Da una parte, dittatori militari o monarchi garanti della “stabilità”, dall’altra movimenti islamisti dalle credenziali democratiche quantomeno ambigue. Schiacciate nel mezzo, popolazioni prive di un’alternativa. Le rivolte arabe, innescate da movimenti popolari trasversali e aconfessionali, sembravano avere aperto una terza via. Esse sono tuttavia sfociate in una serie di transizioni tortuose e dagli esiti incerti, facendo convergere ancora una volta i governi occidentali verso la politica del “male minore”, ossia il sostegno ai regimi autoritari – quelli che hanno resistito al potere o quelli scaturiti da azioni contro-rivoluzionarie come quella dei militari egiziani.
Il “vicolo cieco arabo” nasconde una polarizzazione fittizia, in cui gli estremi opposti si attraggono e dipendono gli uni dagli altri. Generali e re hanno bisogno di continuare ad apparire come l’unico bastione contro la violenza jihadista. Gli islamisti, a loro volta, vogliono continuare ad essere accreditati come le uniche forze realmente dotate di radicamento popolare e legittimità politica. Eppure, se c’è una tendenza che possiamo cogliere inequivocabilmente come conseguenza dei sommovimenti in corso, è quella verso una pluralizzazione degli spazi politici. È un processo che ha coinvolto i gruppi sociali protagonisti delle sollevazioni di piazza - il mondo urbano, giovanile e laico che continua a faticare a darsi una fisionomia politico-istituzionale, ma non per questo è divenuto irrilevante – quanto quello islamista, dove si è assistito a una marcata differenziazione interna, non senza l’emergere di aspre conflittualità. Questa differenziazione può sfociare in una spirale di frammentazione e violenza, come sta accadendo attualmente, ma è anche l’unica possibile via d’uscita verso l’emergere di sistemi politici rappresentativi. Se si vuole evitare di rassegnarsi ancora una volta ad un supposto “male minore” – l’autoritarismo arabo – che si è mostrato incapace di garantire la stabilità nel lungo periodo, è dal prendere atto di questo pluralismo che bisogna partire per attuare politiche che non ripetano gli errori del passato. Tale approccio non fornisce ai decision-makers un modello univoco e applicabile alle molteplici crisi che attanagliano la regione, lasciando ampi margini di discrezione da esercitare a seconda di contesti, attori e tempi diversi. La complessità, talvolta, può apparire come un paravento dietro al quale si nascondono gli ingenui e i pavidi. Ma nel Vicino Oriente di oggi riconoscere la pluralità e non sottrarsi alla fatica di cogliere le sfumature è l’unico modo per essere veramente realisti.
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