Futura è un film collettivo realizzato da Alice Rohrwacher, Pietro Marcello e Francesco Munzi. Tre registi che, nell’ultimo decennio, hanno decisamente innovato la produzione cinematografica italiana. La poetica rarefatta di Rohrwacher, le contaminazioni tra documentario, materiali d’archivio e finzione di Marcello e Munzi sono stati gli elementi con cui una nuova generazione di cineasti ha riportato al centro del discorso cinematografico la complessità della realtà, la necessità del racconto, il superamento di un’estetica fine a se stessa.

Il film, ideato con il sociologo Stefano Laffi, è il racconto del futuro immaginato dalla generazione tra i quindici e i vent'anni che popola il Paese e ne attraversa le contraddizioni. Un viaggio, geografico e sociale, che tocca territori diversi del Settentrione, del Centro e del Meridione, che ascolta con rispetto e curiosità le ansie, i desideri, le paure ma anche le certezze di quelli che sono già le donne e gli uomini del futuro prossimo. I tre registi dialogano senza supponenza con giovani di classi sociali e dalle radici culturali assai diverse, lasciando emergere l’immaginario dei cittadini e delle cittadine di un’Italia multietnica, composita e contraddittoria. La pellicola con cui è stato girato il film tratteggia lo spazio urbano, il centro e le periferie, le grandi città e i piccoli paesi. Quell’Italia tanto rurale quanto industriale, tanto bucolica quanto angosciata. Le speranze minime affiancano visioni articolate. In un certo senso è una cartografia situazionista del presente, del reale sconosciuto dal mondo degli adulti.

Il film è basato non su interviste canoniche ma, piuttosto, è articolato in dialoghi, conversazioni tra gli autori e i soggetti incontrati, e anche su interazioni tra i protagonisti ripresi in officine, laboratori, aziende agricole, spiagge, case d’accoglienza, scuole occupate, università, centri di attivismo politico o di formazione di base, nel loro quotidiano più immediato. I ragazzi e le ragazze non sono oggetto di uno studio metallico, accademico, oggettivamente documentaristico. Al contrario, vengono presentati come elementi di un’empatia, di una prossimità che riecheggia la pratica dell’inchiesta sociale dei Danilo Montaldi, dei Danilo Dolci, dei Rocco Scotellaro, dei Nels Handerson, della storia orale di Nuto Revelli, della letteratura cruda di London e di Sinclair fino alla scrittura socialmente disarmante di Annamaria Ortese e Fabrizia Ramondino. L’intreccio delle diverse storie della generazione futura è incorniciato dal contrappunto dei materiali d’archivio che accompagnano gli spettatori nella dimensione della continuità storica e dalle immagini di luoghi, quasi degli acquerelli dai tratti impressionisti, che puntellano le tappe del viaggio nel Paese che si sta indagando.

Il film è il racconto del futuro immaginato dalla generazione tra i quindici e i vent'anni che popola il Paese e ne attraversa le contraddizioni. Un viaggio, geografico e sociale, che tocca territori diversi, da Nord a Sud

Futura è un oggetto cinematografico inattuale, che si riaggancia – innovandolo – al percorso del cinema militante degli anni Settanta, della Napoli dopo il colera di Wladimir Tchertkoff, dei Comizi d’amore di Pasolini, dei Bambini e noi di Comencini, delle Cartoline da Napoli di Antonello Branca. Documentari e inchieste che oggi si rivelano fonti preziose, e raramente frequentate, da cui attingere strumenti ed elementi per provare a scrivere una diversa storia sociale del Paese che eravamo.

I tre sguardi che hanno composto Futura sono decisamente segnati da una militanza orientata ad affermare non una visione della vita, quanto piuttosto la necessità di capire, scandagliare, aggredire, in un certo senso, le dinamiche e le pratiche sociali che soggiacciono al susseguirsi delle generazioni, alla crescita collettiva di una comunità, alla costruzione delle tendenze che segnano il progresso (o il regresso) di una società (post)industriale.

«Chissà, chissà domani / Su che cosa metteremo le mani / Se si potrà contare ancora le onde del mare / E alzare la testa» è l’incipit di Futura, il brano che Lucio Dalla scrisse e musicò nel 1979, canzone che sembra aver mosso la realizzazione del film. I tre autori si fanno interpreti della volontà di oltrepassare radicalmente gli stereotipi che imperano nel discorso contemporaneo sui giovani, della necessità di superare la narrazione costruita dagli adulti imperniata su schemi interpretativi rigidi e – troppo spesso – priva di fonti reali. Al contrario, quello che muove il film è proprio il lasciar spazio a una sorta di autonarrazione dei ragazzi e delle ragazze che oggi si trovano alle soglie dell’età della ragione. Quel momento della vita bastardo e gioioso in cui tutto potrebbe essere possibile, realizzabile. Un attimo fugace durante il quale ogni cosa sembra a portata di mano. È la coralità del film che riesce, efficacemente, a disegnare l’immaginario pratico di una generazione che, forse mai come prima, viene espropriata della propria capacità di imporsi, affermarsi, immaginarsi.

È la coralità del film che riesce, efficacemente, a disegnare l’immaginario pratico di una generazione che, forse mai come prima, viene espropriata della propria capacità di imporsi, affermarsi, immaginarsi

Il chissà che soggiace in Futura è una prospettiva assolutamente originale che emerge, per la prima volta, in modo netto e capace di restituire un affresco potenziale ma assai complesso di un domani assai prossimo, ma soprattutto, delle mani che afferreranno la propria vita facendo i conti con le menzogne, i disastri, le rigidità e gli inganni lasciati dagli adulti.

La realizzazione di Futura ha incontrato un evento inatteso, un fatto sociale totale, un istante della storia che ha reso tutti noi protagonisti di una cesura storica, mai come prima, visibile ed esperibile. Gli incontri con i ragazzi e le ragazze sono avvenuti in una cornice temporale in cui la storia in particolare di ognuno si è, obbligatoriamente, confrontata con la storia in generale di tutti noi: «la moderna pandemia che camminava di pari passo con il futuro dei giovani mutandone sogni, prospettive e umori», come recita uno dei vari fuoricampo che ritmano l’incedere del film. Il viaggio di Futura è stato dunque condizionato dalla pressione imposta dall’epidemia, fenomeno che, almeno nel mondo occidentale, sembrava ormai una scoria del passato. Una casualità della storia che ha trasformato il film in un documento d’eccezione, «un diario di uno stato d’animo contagiato», una inaspettata cronaca della mutazione del futuro possibile di un’intera generazione.

E così alle prospettive giovanili già influenzate dalla pressione di un sistema sociale ed economico turbocapitalista, dove il denaro e l’affermazione personale sono obiettivi straripanti, si è aggiunta un’ulteriore contraddizione, dettata dall’incertezza della propria agibilità sociale, segnata da chiusure, aperture, divieti e limitazioni. I giovani considerati untori per il solo fatto di vivere la propria vita, amplificatori del contagio nelle scuole, nelle piazze, colpevolizzati come veicoli di una pandemia causata dalla tracotanza degli adulti al potere. Un potere da cui si sentono esclusi ma, tuttavia, lucidamente consapevoli di potersene appropriare senza dover aspettare il proprio turno. Giovani intimamente convinti di poter assaltare il cielo sotto cui si sono ritrovati a vivere. Futura ci dice che l’ansia e la paura sono componenti dell’immaginario che i grandi sviluppano rispetto ai giovani, ansia e paura di vedersi sorpassati, di arrivare al termine del proprio ciclo, di vedere questi ragazzi e queste ragazze approdare al momento in cui riescano a «spaccare tutto», come dichiara un ragazzo incontrato a Cisliano, in provincia di Milano.

Tuttavia, ciò che colpisce è la distanza che intercorre tra le forme di rivolta della generazione di Futura e quella a cui appartengo io. Il 19, 20 e 21 luglio del 2001 ero a Genova. Ho fatto parte di quella folla multicolore che contestava il vertice del G8 e che si è scontrata nelle strade con polizia, carabinieri e guardia di finanza in assetto da guerra, finendo massacrata dal VII reparto Celere comandato dal questore Luigi Canterini nella scuola Diaz. Rohrwacher, Marcello e Munzi incontrano a Genova gli alunni che frequentano oggi quell’istituto scolastico e che, senza remora, raccontano di conoscere ben poco di quanto accaduto la notte del 21 luglio. Dal dialogo tra studenti e registi emerge una spaesante equidistanza rispetto a poliziotti e manifestanti, entrambi accusati di aver esagerato, di aver oltrepassato i limiti della protesta e della repressione. Ecco, forse il senso di un’intera generazione sta proprio qui: nella consapevolezza di non poter osare, di muoversi su traiettorie compatibili con il mondo che è diventato un luogo, uno spazio impossibile da rivoluzionare. O forse no? Forse è soltanto un futuro che viene immaginato da sguardi imperniati su prospettive diverse, sconosciute e decisamente poco raccontate. Persone a cui nessuno si interessa, il cui futuro è relegato al mero calcolo contributivo e pensionistico. Una generazione invisibile che non ha, ancora, oltrepassato la soglia dei trent’anni, età tonda che i ragazzi raccontano come spartiacque: fare figli e smettere di sognare.

Futura è un film senza finale, per fortuna. Un’opera che resta aperta, da continuare a sviluppare. Un po’ come Dalla cantava: «I tuoi occhi così belli non li ho visti mai / Ma adesso non voltarti/ Voglio ancora guardarti / Non girare la testa / Dove sono le tue mani / Aspettiamo che ritorni la luce / Di sentire una voce».