A rileggere i commenti alle vicende del Movimento 5 Stelle dalla sua fondazione a oggi sembra di risentire la voce dei personaggi di un vecchio sketch di Vittorio De Sica e Umberto Melnati (poi ripreso dai Carosello della China Martini con Calindri e Volpi): i due gentiluomini ottocenteschi che – di fronte ai fenomeni nuovi che si affacciavano nella società del loro tempo – sentenziavano immancabilmente con un perentorio quanto improvvido «Dura minga!», ossia «Non può durare! », poi sempre smentito dai fatti («Chi è questo Giuseppe Verdi? Dura minga!»). La stasi successiva al clamore del primo V-day, il calo registrato alle amministrative del 2013 rispetto alle politiche di pochi mesi prima, il distacco dal Pd alle europee del 2014 sono state tutte occasioni in cui molti osservatori hanno intravisto i segni dell’incapacità di questo partito di consolidare la propria forza elettorale e quindi l’annuncio di una inevitabile decadenza. A dare sostegno a tale lettura erano due considerazioni. La prima riguardava l’assenza di un profilo politico ben definito: il «né destra né sinistra» poteva andar bene agli inizi ma avrebbe sempre più mostrato la corda quanto più il M5S avesse dovuto, anche stando all’opposizione, compiere delle scelte (e quindi delle rinunce). La seconda riguardava il carattere dei partiti populisti, visti inevitabilmente come flash parties perché figli della crisi e quindi destinati a durare fintanto che la crisi non avesse trovato altri sbocchi. I risultati delle amministrative del 2017 hanno dato nuovo fiato a questa lettura.
Dopo le trionfali vittorie del 2016 (Roma e Torino, ma non solo), il magro bottino del 2017 ha nuovamente lasciato presagire un imminente declino. Sul blog, Beppe Grillo ha naturalmente contrastato questa tesi: utilizzando la medesima strategia retorica delle amministrative 2013, ha sostenuto che il M5S non aveva in realtà subito alcun calo, ma stava piuttosto continuando un percorso di crescita: lenta, sì, ma inesorabile. A differenza del post successivo alle comunali del 2013, però, il fondatore del M5S non ha portato numeri a suffragio della sua interpretazione, segno – evidentemente – che questa volta era più difficile da sostenere. In effetti, vi sono città importati in cui nel 2017 i consensi si sono ridotti rispetto a cinque anni fa. A parte il caso ben noto di Parma (dove il M5S è quasi scomparso), a La Spezia si è passati dal 10,7 all’8,8%, a Monza dal 9,7 al 7,6%. In diverse altre realtà (ad esempio, Verona) è rimasto ancorato più o meno alle stesse percentuali del 2012. Complessivamente, nei capoluoghi di provincia chiamati al voto ha tenuto – in media – le posizioni del 2012 ma questo non può certo bastare, perché significa tornare alle posizioni di quando era una forza politica di secondaria importanza. Difficile dunque negare che le comunali 2017 siano state una sconfitta (anche se poi il meccanismo del ballottaggio – che, com’è a tutti noto, risulta particolarmente vantaggioso al M5S – ha consentito di limitare i danni).
[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 5/17, pp. 744-751, è acquistabile qui]
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