Anche il cinema non è più Camelot, se mai lo fu. Dalla guerra alla politica, tutto rischia di diventare spettacolo, e la realtà stessa molte volte sembra una parodia. Allora la musa visionaria si assume un compito paradossale: smontare il giocattolo, sfaccettare la fabula, decostruire le rappresentazioni, far ragionare a occhi aperti nel buio della sala che è – guarda guarda - tra i residui luoghi adeguati a chiarificare le cose. È un processo in atto da un po’ di tempo, un movimento a zigzag non privo di resistenze e di contraddizioni, che nei festival ha modo di palesarsi sotto i riflettori, magari rubando la scena alle cronache mondane.
Accade in particolare alla Mostra di Venezia, da sempre la rassegna internazionale più sensibile alle tendenze, alle novità, alle forme culturali in nuce dell’arte cinematografica, senza disdegnarne la natura industriale. La 73ma edizione della Mostra (31 agosto / 10 settembre 2016), diretta da Alberto Barbera (da poco riconfermato per il prossimo quadriennio) coglie e ribadisce la feconda commistione tra la finzione e il rinato documentarismo che qui nel 2013 ottenne il Leone d’oro con Sacro GRA di Gianfranco Rosi. Inoltre Venezia73 svela il rimescolamento dei generi tradizionali (torna in altre vesti addirittura il musical grazie al corrusco La La Land del giovanissimo Damien Chazelle), e indica la ricerca lungo strade ignote o poco battute.
I consensi del pubblico e della critica in Laguna consacrano per esempio il talento del quarantenne cileno Pablo Larraín, in concorso con il magnifico Jackie. Il film racconta le convulse giornate successive all’omicidio di Kennedy, a Dallas il 22 novembre 1963, dal punto di vista della vedova Jacqueline/Jackie, interpretata da una Natalie Portman in stato di grazia. È di Jackie il riferimento a Camelot, la canzone tratta da un musical di Broadway ispirato a Re Artù, assai amata dal marito. Il motivetto allegro suggella l’opera di Larraín - quest’anno autore anche di un film biografico su Neruda (era a Cannes) - dopo le lacrime, il dolore, il panico, il cinismo del potere e l’ottusità del cerchio magico alla Casa Bianca. Nel film, infatti, Jackie è l’unica a intuire che intorno al corpo martoriato di JFK si consuma un’epoca e che con i suoi funerali solenni se ne apre un’altra sotto il segno della televisione, là dove – sussurra – «la recita e la verità» si aggrovigliano e si confondono. Perde di rilievo, per così dire, l’annosa questione su chi fossero i mandanti dell’assassinio di Dallas, e balza agli occhi il dramma di una donna sola e consapevole dei tradimenti subiti dal marito, di una madre impaurita, della reduce di una stagione durata troppo poco e durante la quale molto più si sarebbe dovuto fare per la pace e il cambiamento, come emerge nei dialoghi tra Jackie e Bob Kennedy/Peter Sarsgaard. «Arriva il momento in cui dobbiamo smettere di farci domande», le dice un sacerdote per confortarla, ma il film di Larraín scandisce piuttosto l’ora in cui finalmente non ci accontentiamo di ottenere le medesime risposte di ieri, e invita allo spaesante esercizio della realtà con le sue discordanze e incongruenze, sullo sfondo della grande Storia.
Le illusioni e le rovine del secolo scorso – non poi tanto «breve» visto il persistere delle questioni che lo marcarono – sono passate al vaglio di vite bizzarre o violente in Paradise, del russo Andrei Konchalovsky, e in Sulla via lattea, del serbo-bosniaco Emir Kusturica, con una sorprendente Monica Bellucci «balcanica» (oltretutto recita in serbo), entrambi in competizione. Da citare pure Hacksaw Ridge di Mel Gibson, dedicato alla storia vera di un obiettore di coscienza che si arruolò come soccorritore volontario durante la Seconda guerra mondiale, rischiò di finire davanti alla corte marziale perché si rifiutava di imbracciare un fucile, e durante la battaglia di Okinawa salvò decine e decine di commilitoni.
A proposito del Novecento «infinito», in gara si è visto il melodramma Frantz, del francese François Ozon, sulla Prima guerra mondiale, ed è passato fuori gara Austerlitz dell’ucraino Sergei Loznitsa (originario della Bielorussia), che mostra con un obiettivo di struggente fissità il via vai dei turisti in un ex lager nazista. Il film di Loznitsa prende le mosse dall’omonimo romanzo di W.G. Sebald, suscitando sgomento e stupefazione: «perché mai – si chiede il regista - una coppia di innamorati o una madre con il figlio si recano in una bella giornata di estate a vedere i forni crematori?».
Ecco, la letteratura come energia vitale è un’altra fonte riconoscibile di Venezia73. Il libro e la vita s’incontrano e si scontrano in più di una metafora. Tra le più riuscite vi sono quella sul coraggio e l’erotismo di Animali notturni, dello stilista americano Tom Ford, ispirata al romanzo Tony e Susan di Austin Wright; e I bei giorni di Aranjuez, del tedesco Wim Wenders, tratto da Peter Handke, dove i personaggi «prendono corpo» dalle pagine di un testo in fieri votato alla differenza essenziale tra il desiderio femminile e la pulsione virile più culturale che naturale. Mentre il libro come ossessione e maledizione di tutta una vita è al centro del reportage American Anarchist di Charlie Siskel (Usa), una lunga intervista a quel William Powell che negli anni Sessanta, sull’onda delle suggestioni ribelli allora in auge, scrisse The Anarchist Cookbook, un «ricettario» sulla fabbricazione di esplosivi e su varie forme di resistenza non passiva. Powell è scomparso nelle scorse settimane. All’epoca aveva soltanto 19 anni e quel suo discutibile manuale ha venduto due milioni di copie, continua a essere disponibile su Internet dove «fa scuola», dal massacro di Columbine alle incursioni del fondamentalismo islamico, sebbene l’autore avesse fatto di tutto per sconfessarlo, ritirarlo dal commercio e riflettere sulle trasformazioni delle rivolte nel corso del tempo. Libri e vita, ancora, nella commedia argentina Il cittadino illustre, di Mariano Cohn e Gaston Duprat, con un bravissimo Oscar Martinez nel ruolo di un premio Nobel per la letteratura che ammicca ai tic di Garcia Marquez, in visita nel paesello nativo dopo molti lustri; e in Une vie, di Stéphane Brizé, sulle relazioni amorose/pericolose nella lente di Guy de Maupassant.
Quanto al cinema italiano visto in concorso a Venezia73, appare eclettico nel tentativo di sfuggire all’eterna morsa della crisi. Ecco la commedia giovanilistica Piuma, di Roan Johnson; Questi giorni, di Giuseppe Piccioni, da un romanzo di Marta Bertini, dedicato al viaggio di quattro donne ventenni lungo una linea d’ombra oggi più incerta che mai; e Spira mirabilis, dei documentaristi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Quest’ultimo film adotta uno sguardo contemplativo in cerca di verità nascoste che ricorre anche nell’ipnotizzante La donna che partì, del filippino Lav Diaz (226 minuti, quasi un corto considerando i suoi film precedenti di cinque/sei ore ciascuno, fino a nove!), e in Terrence Malick, che gira e rigira tormentosamente intorno alla nozione di Passaggio del tempo: il viaggio della vita, titolo del suo film «veneziano».
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