Venezia 77 lungo la frontiera tra visibile e invisibile: da una parte l’insidiosissimo virus che ha cambiato il mondo seminando lutti e giocoforza allontanandoci, dall’altra la dimensione della socialità che non vediamo l’ora di riconquistare. Forse si può esprimere così lo spirito sotteso alla Mostra internazionale d’arte cinematografica che si conclude sabato 12 settembre, la prima manifestazione di rilievo a svolgersi “in presenza” e non con le modalità online imposte dalla pandemia, sebbene avvalendosi della telematica per il tracciamento dello spettatore nell’ambito di un impegno rigoroso per il rispetto delle misure di sicurezza sanitaria.
Il neopresidente della Biennale di Venezia, Roberto Cicutto, e il direttore della Mostra, Alberto Barbera, hanno puntato sulla partecipazione degli addetti ai lavori e del pubblico, incoraggiando le aspettative dell’industria cinematografica che spera in una ripartenza dopo sette mesi di blocco. Venezia 77 non vale certo come un’implausibile “sfida” al virus, piuttosto è un segnale per il settore culturale tout court che giunge dalla Biennale dove le arti dialogano per statuto. E lo faranno sempre di più, ha ribadito Cicutto, che crede nei fecondi incroci possibili tra arte, architettura, danza, teatro, musica e cinema, oltretutto valorizzando l’Archivio storico dell’istituzione veneziana, dal quale, intanto, si sono attinti i materiali per l’esposizione Le muse inquiete, allestita nel padiglione centrale dei Giardini fino all’8 dicembre.
Quello tra visibile e invisibile è anche un confine sottilissimo che attraversa alcuni dei film della Mostra di quest’anno, in una selezione dominata dai temi cruciali del nostro tempo, o, se volete, molto “politica”. Qualche esempio? La guerra in Siria, Libano e Kurdistan in Notturno, di Gianfranco Rosi, che scandaglia la quotidianità delle “retrovie”; il razzismo e il riscatto degli afroamericani in One Night in Miami, di Regina King; la microfisica del potere e della violenza di Nuevo Orden, del messicano Michel Franco, o di Cari compagni, del russo Andrei Konchalovsky; lo scontro fra radici antropologiche e modernità turistica nella Sardegna di Assandira, di Salvatore Mereu; la povertà dei nuovi hobos che finiscono per lavorare nei magazzini di Amazon evidente in Nomadland, della sino-americana Chloé Zhao... E ancora il protagonismo femminile in Miss Marx, di Susanna Nicchiarelli, dedicato a Eleanor detta Tussy, la figlia ultimogenita di Karl Marx, libertaria e femminista ante litteram, divisa tra il socialismo operaio e i diritti delle donne, eppure amante infelice.
Mentre continua ad agire l’eredità del ‘900, “secolo breve” in verità lunghissimo. È il caso di Quo vadis, Aida?, della regista di Sarajevo Jasmila Zbanic, che racconta il massacro di Srebrenica con gli occhi di una interprete al servizio delle Nazioni Unite, una donna tenace ma infine ovviamente indifesa di fronte al genocidio per mano serba di ottomila musulmani bosniaci, nel luglio 1995, condannati dall’ignavia dei caschi blu olandesi. D’altro canto, Final Account, del britannico Luke Holland (scomparso nei mesi scorsi), si interroga sul paradigma stesso della visione rispetto al “tabù” della Shoah, intervistando decine di anziani tedeschi complici o indifferenti rispetto allo sterminio nazista degli ebrei: ex ufficiali delle SS, guardiani dei lager e contadini che vivevano nei dintorni dei campi della morte. Nel documentario di Holland lo scenario della “soluzione finale” non è suggerito dalle terribili immagini di repertorio cui siamo “abituati”, invece si reifica in quei luoghi oggi deserti e ormai monumentati tramite le parole titubanti o gaglioffe di chi c’era e non fece alcunché per contrastare il Male.
A proposito di epifanie dell’“invisibile”, nel 2020 del centenario di Federico Fellini a Venezia è balenato il fantasma del riminese alla maniera che gli sarebbe stata meno invisa: nulla di celebrativo, anzi, un che di scanzonato, ironico, allegro e surreale affiorato alla ribalta di due film non lontani dalla sua estetica. Parliamo di La verità su La dolce vita, prima regia del produttore Giuseppe Pedersoli, figlio di Bud Spencer e nipote di quel Peppino Amato che co-produsse con Angelo Rizzoli il capolavoro di Fellini del 1960. Il vulcanico e generoso Amato fu colui il quale profetizzò che “per questo film l’attesa è sporadica!”, volendo dire “spasmodica”, dopo essersi battuto pur di realizzare La dolce vita e votandosi infine a Padre Pio per ottenerne la benedizione (il doc, gustosissimo, è ricco di materiali inediti). L’altro titolo sensu lato “felliniano” è Extraliscio - Punk da balera di Elisabetta Sgarbi alias Betty Wrong, evento speciale delle “Giornate degli Autori” veneziane. La Sgarbi, cui è stato assegnato il premio Siae per il talento creativo, ha sceneggiato il film con lo scrittore Ermanno Cavazzoni, uno dei cantori “tra la via Emilia e il West”, qui anche narratore sullo schermo, che con il suo Poema dei lunatici ispirò l’ultima opera di Fellini, La voce della luna (1990).
Extraliscio - Punk da balera promette che “si ballerà finché entra la luce dell’alba” divagando e girovagando intorno alla musica e ai caratteri della Romagna vitalistica e anarchica e malinconica, con un desiderio di “decostruire” la tradizione che evoca certi valzer visionari del finlandese Aki Kaurismäki o del bosniaco-serbo Emir Kusturica, eredi della vena “grottesca” di Fellini. La storia? Poco più di una traccia. Moreno il Biondo, ex capo orchestra di Casadei e bravissimo clarinettista, incontra il compositore Mirco Mariani e insieme fondano “Extraliscio”, cui si aggrega Mauro Ferrara, interprete assai popolare di Romagna mia. Non una band, insomma, ma un’esperienza in itinere tra folklore e avanguardie, irriverente e poetica, che lo stralunato Cavazzoni racconta passo dopo passo, perdendosi nella nebbia di uno studio di registrazione al pari del nonno di Titta in Amarcord. “Punk, amore e fantasia”, recita un refrain del film che chiama a raccolta, fra gli altri, Antonio Rezza, Francesco Bianconi, Vasco Brondi, Riccarda Casadei, Biagio Antonacci, Stefano Belisari (Elio delle Storie Tese) e Jovanotti, il quale ascrive i ritmi della terra di Fellini più all’area balcanica che a quella italiana. Commuove l’esibizione di Gilda Mariani, giovanissima figlia di Mirco, quando intona Gam Gam Gam Ki Elech, che, riprendendo un versetto del testo ebraico del Salmo 23, è una canzone simbolo dei bambini vittime della Shoah. Auschwitz e la Riviera legati da un filo invisibile…
Riproduzione riservata