Al di là dell’analisi delle tematiche generali che, ovunque nel mondo occidentale, correlano la corruzione con l’attuale malessere democratico, gli antidoti “domestici” da adottare per contrastare questa situazione sono almeno due, oltre quelli previsti dalla repressione diretta. Il primo è assicurare se non un ricambio almeno una circolazione delle èlite, come già auspicava Pareto. L’altro è sciogliere il nodo gordiano delle lobby.Le posizioni di vertice dovrebbero conoscere un ricambio regolare, per impedire che siano ricoperte troppo a lungo da una stessa persona, seppur meritevole: se vengono trattate con mentalità “patrimonialistica”, infatti, spingono chi le occupa sia a rafforzare un orientamento autoreferenziale, restio alla decisione e avverso al cambiamento sia a circondarsi di fedeli, magari di bassa lega, che gli consentono il “galleggiamento” nel mercato politico delle clientele. Lo scopo diviene non decidere ma durare, tenendo ì meriti sott’acqua. Dunque ricambio delle élite. Che non può limitarsi al cambiamento di uomini con altri uomini che finirebbero per comportarsi non da meno dei loro predecessori. Bisogna cambiare alcune regole. Primi suggerimenti già ampiamente circolati e sui quali chi attualmente governa fa orecchie da mercante: due mandati prescrittivi per cariche di vertice di grandi istituzioni pubbliche e private, regole per la selezione dei dirigenti e la vita interna dei partiti e di lobby istituzionali, norme concorsuali avverse a nepotismo e a reclutamenti cetuali. Merito, trasparenza, concorrenza la triade dei criteri da adottare.
Veniamo al nodo gordiano dei gruppi di interesse: si stringe tra l’immagine torbida, clientelare e corruttiva che, nel senso comune, evoca il termine lobby nella sua veste di gruppo di pressione e il fatto che un riconoscimento normativo dei gruppi di interesse li renderebbe “un’alternativa alla corruzione” (Trupia). In diritto, il nodo gordiano è individuare il confine oltre il quale l'attività dei gruppi di pressione, traducendosi spesso nell'imposizione arbitraria di contenuti normativi con efficacia erga omnes, smette di essere compatibile con l'assetto costituzionale e presuppone un giudizio di bilanciamento tra il valore della partecipazione e del pluralismo, di cui le lobby sono espressione, e quello della correttezza e trasparenza dei procedimenti decisionali, a livello legislativo e governativo. In altre parole, come possiamo assicurare libertà al pluralismo associativo e di partecipazione, senza ingabbiarlo in disincentivanti regolamentazioni? E come possiamo proteggere contemporaneamente i processi decisionali pubblici dal lobbismo?
Questi interrogativi nascono dall’evidenza che nelle società complesse come la nostra, il vuoto pneumatico che si è formato tra politica e cittadini, è in realtà occupato dall’azione efficace di ampi reticoli relazionali tessuti dalle lobby, siano esse istituzionali (sindacati, associazioni datoriali ecc.) che di singoli grandi poteri (ad es. una multinazionale). La loro azione di pressione – dopo Tangentopoli suppletiva alla debolezza dei partiti – si incentra sui decisori pubblici, con tecniche di soft-pressure, ma anche di corruzione. Il 63° posto (su 180) che Transparency International ha attribuito nel 2009 all’Italia, ha trovato anche conferma da dati ufficiali della Corte dei Conti: tra il 2008 e il 2009, le denunce per corruzione sono cresciute del 229% e quelle per concussione del 153% con danni di decine di milioni per il nostro Stato.
Anche il Governatore della Banca d’Italia ha severamente criticato costi morali e finanziari di questa piaga corruttiva che cresce nel Paese. A parte i gruppi di interesse istituzionale (che pure necessiterebbero di una regolamentazione), preoccupa la diffusione di un lobbismo che rimane nascosto, arroccato nell’idea che le risorse pubbliche siano in funzione di un interesse privato. Un’idea dissipativa per il sistema Paese, erosiva per la dimensione civica, fertile per far prosperare la corruzione. La “cricca” lo dimostra con i suoi evidenti collegamenti lobbistici. Sembra perciò necessario introdurre qualche regola sia per il riconoscimento del lobbismo istituzionalizzato dei grandi interessi che per rendere tracciabile l’azione di quel lobbismo che si muove “dietro le quinte” e che non di rado è artefice di fenomeni corruttivi. È noto che nel nostro Paese le lobby non hanno alcuna normazione specifica. Più che confidare su una loro reale quanto improbabile limitazione (come mostra il caso statunitense), occorrerebbe disegnare un modello normativo almeno ispirato a quello introdotto dalla Ue (preoccupata per i circa trentamila lobbisti che assediano Bruxelles), fondato sulla trasparenza delle attività di lobby, sulla garanzia del rispetto del principio democratico nei processi di produzione legislativa. In questo modo, la trasparenza dei comportamenti e delle attività dei gruppi di pressione si configura, oltre che come regola, anche come strumento di valutazione della stessa meritevolezza delle attività di promozione degli interessi settoriali. Democrazia, pluralismo e trasparenza, che costituiscono valori fondanti dell'ordinamento costituzionale, sarebbero i tre criteri ispiratori.
Se ci fosse la volontà di fare, agendo sulle regole di ricambio delle élite e sulla trasparenza delle reti relazionali degli interessi, la corruzione diminuirebbe e si contribuirebbe a scrivere “sul campo” un codice etico della rappresentanza.
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