Nelle prime settimane dell’emergenza Covid-19 in Italia ha suscitato scalpore e polemiche la pubblicazione, da parte della Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (Siaarti), delle “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili” (versione 01, 6 marzo 2020). Tali Raccomandazioni, dirette a tutti gli operatori sanitari coinvolti, concernono ovviamente la situazione di emergenza determinata dall’iniziale crescita esponenziale del contagio da Covid-19. Notoriamente, l’atteso aumento vertiginoso dei casi di insufficienza respiratoria acuta ha fatto temere fin dal principio il collasso della capacità di assistenza e cura dei malati bisognosi di ricovero in terapia intensiva con ventilazione assistita. Le Raccomandazioni Siaarti partivano proprio dalla previsione di “un enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive”. Si prevedeva che non vi fossero sufficienti posti in terapia intensiva per tutti coloro che ne avessero bisogno: pertanto, si prospettavano vere e proprie scelte tragiche riguardo a chi destinarli, selezionando alcuni pazienti a scapito di altri (indipendentemente dal fatto che si trattasse di pazienti Covid-19 o meno). Data l’eccezionalità della situazione, Siaarti raccomandava di non attenersi strettamente al mero criterio cronologico first come, first served e di privilegiare invece i pazienti con maggiore “speranza di vita” e possibilità di successo terapeutico. Occorreva pertanto valutare l’età anagrafica (preparandosi all’eventualità di porre limiti di età per l’accesso), insieme però alla presenza di comorbidità e allo status funzionale dei pazienti.
Le critiche e preoccupazioni suscitate dal documento sono comprensibili, ma spesso infondate. L’accusa più diffusa evoca lo spettro dell’utilitarismo, col suo vero o presunto disprezzo per la dignità umana, per gli eguali diritti di tutti e per la giustizia distributiva, in un’ottica di risparmio delle risorse e massimizzazione del benessere collettivo. Il modello utilitarista nell’allocazione delle risorse mediche terrebbe in conto i cd. Qaly (Quality-adjusted Life Years), ossia l’anzianità dei pazienti e la qualità di vita attesa per gli anni che rimangono loro. Si tratta di criteri che confliggono con la Costituzione e con la deontologia medica, perché, seguendo indici econometrici, discriminano tra vite umane di maggiore e minor dignità, in base alle aspettative di durata e qualità della vita e magari di produttività e utilità sociale. Nel caso dei pazienti più anziani, tale discriminazione costituirebbe un esempio del cd. ageism. Il criterio della massima utilità accolto nelle Raccomandazioni sarebbe compatibile con sistemi giuridici ove non vige il riconoscimento costituzionale del diritto alla salute, risultando invece incompatibile con il “modello personalista” della Costituzione italiana.
Alcuni di questi rilievi appaiono però fuori fuoco, leggendo con attenzione le Raccomandazioni e gli altri documenti a cui rinviano e consultandosi con coloro a cui si rivolgono: gli operatori sanitari. Il riferimento al fatto che persone più giovani e più sane siano meno resource consuming può trarre in inganno chi non tenga presente che le “risorse” cui si allude sono le cure intensive, non certo il denaro, le ore di lavoro ecc. È noto che un paziente più anziano o con problemi di salute, qualora superasse la fase più critica, potrebbe tardare molto di più a riprendere a respirare autonomamente, seguitando a occupare un posto di terapia intensiva. L’utilitarismo c’entra poco con queste raccomandazioni: non deve fuorviare il riferimento alla “massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone”, perché il criterio è “riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata”. Non vi è alcun riferimento ai Qaly o a parametri econometrici nel documento né in altri testi a cui rinvia. Peraltro, anche l’accusa di ageism sembra infondata, in quanto si sottolinea che non solo l’età, ma anche lo stato di salute dei pazienti è da tenere in conto, al fine di ammettere in terapia intensiva chi ha maggiori probabilità di sopravvivenza e secondariamente chi può avere davanti più anni di vita. Del resto, nelle situazioni estreme a cui si applicano queste Raccomandazioni, si può immaginare una scelta tragica spesso tra due pazienti entrambi in condizioni gravissime, per cui occorre decidere a chi riservare il solo posto in terapia intensiva disponibile, sperando di riuscire a salvare (almeno) una vita invece di nessuna. È chiaro che scegliere su chi puntare è una terribile scommessa, da compiere nel modo più lucido possibile.
Per le raccomandazioni, lo squilibrio estremo ed eccezionale tra richiesta e disponibilità giustifica “Un eventuale giudizio di inappropriatezza all’accesso a cure intensive basato unicamente su criteri di giustizia distributiva”. Si può comprendere meglio quest’affermazione consultando uno dei documenti Siaarti richiamati, quello del 2003 relativo ai criteri generali di ammissione in Terapia Intensiva. Al suo interno si riconoscono, in accordo con i documenti internazionali rilevanti, quattro princìpi etici su cui basarsi: 1) autonomia (rispetto dell’autodeterminazione del paziente); 2) beneficenza (fare il bene del paziente); 3) non-maleficenza (primum non nocere); 4) giustizia distributiva (allocazione equa di risorse limitate). Evidentemente, la situazione straordinaria può obbligare a basarsi solo sul quarto principio, a scapito dei primi tre. Ciò dovrebbe essere sufficiente anche a rispondere alle preoccupazioni di chi, come Caterina di Costanzo e Vladimiro Zagrebelsky, si domanda se i criteri delle Raccomandazioni siano operanti soltanto nel contesto dell’emergenza o se valgano in generale. Del resto, al loro interno si parla esplicitamente di “medicina delle catastrofi”. Inoltre, sebbene questi autori notino giustamente che vi sono diversi possibili modelli di giustizia distributiva e criteri allocativi, le raccomandazioni precisano, come si è detto, che si ritiene giusto favorire primariamente chi ha più possibilità di sopravvivenza e secondariamente più anni di vita salvata (criterio, il secondo, di cui si può discutere la natura clinica o extra-clinica, com’è avvenuto nel Comitato nazionale di bioetica). Si cerca, in ogni caso, di massimizzare la “quantità di vita umana” salvata. In queste raccomandazioni non si discrimina in base all’utilità sociale dei pazienti, né si fa riferimento alla qualità della vita. Peraltro, nel documento del 2003 cui esse rinviano si specifica che uno dei fini della terapia intensiva è quello di preservare una “vita degna”, nel senso di rispettare la volontà del paziente e la sua stessa concezione di qualità della vita: non ci si arroga affatto il diritto di giudicare quali vite siano più o meno degne, né di decidere della loro qualità.
Sarebbe, dunque, una forma insolita di utilitarismo, quella per cui l’unica utilità da massimizzare è la pura vita umana (numero di individui salvati e loro aspettativa di vita). Si tratta, certo, di una forma di consequenzialismo, nel senso che il valore morale delle scelte è fatto dipendere dalle loro conseguenze, non da caratteristiche intrinseche delle azioni (come nell’etica kantiana). È però difficile escludere del tutto considerazioni consequenzialistiche da una teoria della giustizia plausibile, tanto più quando le scelte tragiche diventano inevitabili.
Per il momento, anche grazie ai progressi nel trattamento della malattia, i peggiori scenari paventati da queste raccomandazioni sono stati evitati, ma è ovvio che situazioni terribili come quelle prospettate al loro interno non devono verificarsi e che qualsiasi sforzo dovrebbe essere fatto a tal fine. È altrettanto indubbio che non si dovrebbe mai scaricare sul personale medico l’intera responsabilità di queste decisioni: le raccomandazioni, del resto, sono intese espressamente a “sollevare i clinici da una parte della responsabilità nelle scelte, che possono essere emotivamente gravose, compiute nei singoli casi”. Non si può che concordare, dunque, con Filippo Anelli, presidente dell’Ordine dei medici, per il quale il documento Siaarti è “un grido di dolore. Nessun medico deve essere costretto a una scelta così dolorosa (…) Non possiamo permettere che si verifichino gli scenari prospettati dalla Siaarti”.
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