«Abbiamo ridotto lo spread con l’Europa», così, soddisfatto, ha detto qualche giorno fa Giuliano Pisapia. E non si tratta dello spread di cui da molti (troppi?) mesi la politica ha rinunciato a occuparsi, lasciandolo a quella che – come si sostiene – sarebbe la perizia tecnica di un gruppo di professori, economisti e banchieri. Naturalmente, ogni tecnica è sempre una politica, ma con la pretesa più o meno ipocrita di non esserlo. Nel caso cui si riferisce il sindaco di Milano, invece, non c’è ombra di “ideologia tecnica”, e la politica trova (o ritrova) tutta la sua necessaria, felice autonomia: ora anche la più ricca e, come si diceva in anni lontani, la più europea delle città italiane ha un registro delle unioni civili.
Se si stilasse una classifica a questo proposito – ossia, a proposito del riconoscimento di un diritto non più che elementare, nella sua urgenza umana –, la metropoli lombarda si collocherebbe al di sotto del novantesimo posto, ben lontana dalla prima classificata, Empoli, e anche dopo Cagliari, che l’ha istituito un mese fa, il suo registro. D’altra parte, non si tratta di una gara, e se poi lo fosse varrebbe il principio olimpico (ampiamente disatteso, del resto) del barone Pierre de Coubertin «l’importante non è vincere, ma partecipare».
Veniamo dunque al merito della decisione presa dal Consiglio comunale milanese, dopo un confronto durato una dozzina di ore, e seguito a mesi di trattative, polemiche, ritardi (la visita del papa ha rallentato l’iter dell’approvazione, a conferma di quanto poco laiche siano la nostra cultura e la nostra pratica politica, e qualcuno particolarmente pio ha anche paventato un fantomatico, assurdo rischio di poligamia). In sostanza, le coppie di fatto – eterosessuali od omosessuali – potranno registrarsi all’anagrafe come conviventi, ossia come famiglia anagrafica, espressione che peraltro nel testo della delibera sembra sia stata espunta, per tranquillizzare i più timidi.
Fin qui le novità non sono molte: da tempo i milanesi che convivono, e anche i singoli, possono chiedere un certificato di famiglia anagrafica, appunto. In più, però, d’ora in poi si potrà ottenere d’esser riconosciuti come coppia, sulla base di un attestato di “unione civile”. Il che, fra l’altro, consentirà a ognuno dei conviventi di accedere alle informazioni sanitarie se il compagno o la compagna fossero ricoverati in ospedale. In ogni caso, è previsto che in tutti i prossimi atti comunali le coppie di fatto saranno equiparate a quelle di diritto.
Insomma, per quanto opportuna e anzi del tutto necessaria, in se stessa la delibera non è rivoluzionaria, e in fondo neppure molto riformistica. Né un provvedimento comunale sarebbe potuto esserlo, in materia. D’altra parte, il suo significato è simbolico, e molto politico, indicando una via che la politica, appunto, dovrebbe finalmente decidersi a percorrere in Parlamento. Quanto a coppie di fatto e a matrimoni omosessuali il nostro Paese pare sia l’ultimo in Europa, insieme con la solita, disperata, maltrattata Grecia. Il suo spread è preoccupante anche più di quello fra i Btp e i Bund tedeschi. E preoccupante è la pervicace volontà (quasi) bipartisan di disattendere lo spirito della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ci imporrebbe di tutelare e promuovere «i valori indivisibili e universali della dignità umana». Per molto meno la “tecnica” non ha esitato e non esita a infierire sulle nostre pensioni e sui nostri redditi (su quelli bassi e su quelli medi, naturalmente). Che cosa aspetta la politica a fare lo stesso, ma questa volta a favore dei nostri diritti civili, adeguandosi alle richieste dell’Europa, oltre che al dettato dell’articolo 3 della Costituzione?
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