Il vuoto spettrale di una piazza San Pietro deserta, che papa Francesco ha scelto come luogo adatto per la preghiera di intercessione del 27 marzo, nel cuore dell’esplosione globale della pandemia, ha visibilmente aperto uno spazio per tutta l’umanità, senza distinzione alcuna. Con quel gesto, il massimo rappresentante di una religione bi-millenaria ha fatto cadere ogni confine confessionale, di appartenenza, di prossimità o distanza dalle fedi.
Se c’è un Dio, e se può qualcosa, è per tutti – e non solo per un gruppetto fedele di accoliti religiosi. E anche ogni devozione religiosa verso Dio è messa a nudo in momenti della storia come questi, costretta all’essenziale e privata di ogni orpello. È così che Francesco ha voluto celebrare il Triduo pasquale, cuore della fede cristiana, per tutta l’umanità. Non per costringerla a un nuovo assoggettamento alla potenza della Chiesa, ma per attestare al mondo di una comunità di fede che non vuole mai essere senza l’altro, lasciandolo esattamente tale: altro da sé.
Il vuoto degli spazi liturgici in cui si è mosso Francesco tra marzo e inizio aprile ha mostrato con forza esattamente questo. Nel più proprio della sua fede il cristianesimo si espone su un’esteriorità e un’alterità che non potrà mai occupare. Rinunciando addirittura, nella messa di Pasqua, a commentare le proprie Scritture sacre, scegliendo piuttosto un silenzio ospitale del mondo intero. Rifiutandosi così di piegare al gergo della propria lingua la devozione di Dio per gli uomini e le donne che abitano questo nostro fragile pianeta. Inaudita consapevolezza di un’istituzione della religione che ha appreso di non avere una parola migliore di quella di Dio da dire. E, quindi, fa silenzio nel cuore della sua stessa liturgia.
In questa domenica di Pasqua Francesco ha programmaticamente scelto un altro momento per dire una parola al mondo. Nel suo messaggio Urbi et Orbi ha abbracciato, senza retorica, questo nostro mondo scosso dall’esperienza del male che infetta le persone, le relazioni, gli affetti, le prospettive del domani – fattosi radicalmente incerto per milioni di persone. Lo ha fatto nella forza di una speranza di fede particolare, che sa di non essere «una formula magica che faccia svanire i problemi». Una speranza che però dà tenuta all’animo nell’attraversarli e si fa voce critica rispetto al modo di affrontarli.
In queste parole di speranza cristiana viene nominata una sola istituzione politica: l’Unione europea. La maggior parte dei media ha colto questa menzione come una sorta di monito morale, e in parte potrebbe essere letta anche così. Ma non si tratta solo di questo. Francesco è consapevole dei profondi mutamenti geopolitici ed economici che questa pandemia porta con sé, ed è in questo quadro di riconfigurazione degli equilibri e delle forze globali che devono essere lette le parole rivolte all’Unione europea.
Oggi, per la prima volta con questa convinzione e appoggio, la Chiesa guarda all’Unione europea come suo partner istituzionale per disegnare insieme un ordinamento del mondo secondo giustizia ed equità: «Oggi l’Unione europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative».
La liturgia pasquale cristiana è forse l’unico scenario in cui è possibile una parola per il mondo nel suo complesso. Francesco ha scelto di non occuparlo da solo, convocando accanto a sé l’istituzione che sente più prossima per disegnare il futuro prossimo dell’umanità. In questa istituzione egli non cerca una vassalla arrendevole, ma un alleato capace. Qualcosa di inedito è accaduto nelle parsimoniose e accorate parole pronunciate domenica da Francesco. Spetta ora ai politici e alle istituzioni europee decidere se e come entrare nelle trame di questa alleanza a favore dell’umanità, per risolvere i problemi che generano ingiustizia e ineguaglianza – sapendo di poter far conto su quella tenuta della speranza che Francesco offre loro come sponda amica e affidabile.
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