La legge 81/1993 sulle elezioni degli organi degli enti locali è la prima tappa di un processo politico e sociale che in Italia stava maturando almeno dall’inizio degli anni Ottanta: la rottura tra cittadinanza e rappresentanza. Certo fa male a molti, compreso il sottoscritto, constatare che l’elezione diretta del sindaco è l’avvio dell’antipolitica e di quello che impropriamente si chiama populismo. Ma purtroppo è così. Per ragioni che non è facile riassumere, senza eccessive semplificazioni. Vorrei comunque provarci. 

La prima ragione è la sanzione simbolica di un rapporto, quello tra il sindaco e i suoi cittadini, che ha una carica eversiva che è stata davvero sottovalutata. La seconda, più importante, è che è stato il primo passo sulla via della delegittimazione dei corpi intermedi. La terza è che era sostanzialmente una delega quasi in bianco, visto che non veniva accompagnata dalla costruzione di poteri di controllo o di contropoteri. E ad andare in crisi fu proprio il rapporto tra cittadinanza e rappresentanza.

Si usciva da un decennio dove un’emergenza (il terrorismo nero e rosso) aveva portato a una legislazione speciale che, anche se in modo non diretto, aveva messo in crisi tutti i corpi intermedi (a partire dai consigli di fabbrica e dai delegati per arrivare alle organizzazioni che avevano saputo mettere insieme problemi e competenze, si pensi solo alla scuola, a cominciare dalla materna). "Il nemico", direbbe Carl Schmitt non sempre sbagliando, poteva "nascondersi" proprio nelle organizzazioni "intermedie".

L’incapacità di affrontare una complessità che si stava per altro sclerotizzando, unita alla riduzione conoscitiva di una realtà che nel frattempo radicalizzava differenze e conflitti, enfatizzando rischi e paure, attraversa tutti gli anni Ottanta e porta a concepire figure in grado non solo di semplificare il processo decisionale, ma anche cariche di un carisma, avrebbe scritto Weber, che ne legittimasse l’autorità.

Un processo che andrebbe a lungo indagato, e dai cui emergono ad esempio le archistar (quando ormai la professione liberale che li esprimeva quasi non esisteva più) o i manager (forse non tutti avevano letto La rivoluzione manageriale di James Burnham e le sue conclusioni).

Ma la legge 81/1993 aggiunge a questi progetti due elementi essenziali: fare della votazione l’unico elemento simbolico della vita di un’amministrazione e al contempo creare un presunto filo diretto tra individuo e popolo. Due elementi essenziali nel sancire l’incrinatura del rapporto tra cittadinanza e rappresentanza. Con due sottintesi forse ancor più interessanti.

Il patto che si stipulava tra sindaco e cittadini aveva come unico "tribunale" le successive elezioni, non prevedeva “contrappesi” in grado di vigilare sull’osservanza del patto che si era "firmato". Non solo. Non si riorganizzavano i corpi intermedi (burocrazie, commissioni, assemblee, giù giù sino alle organizzazioni, ad esempio ordini, che dovevano regolare il rapporto anche tra professioni, ormai radicalmente mutate, e rappresentanze in "n" strutture dello Stato) che dovevano operativamente dar continuità alle "decisioni". Strutture che anzi rimanevano immutate. Una per tutte: la commissione edilizia, eletta per rappresentanze delle professioni e degli interessi, che poco muta in trent’anni. Perché, ad esempio, fatte salve alcune eccezioni, ad esempio i piani regolatori si arricchivano di varianti, mentre i piani strategici restavano in gran parte esercizi di calligrafia politica?

Populismo e riduzionismo conoscitivo andavano di pari passo. È sufficiente osservare le composizioni delle assemblee comunali e la nomina degli assessori, che rispondevano a logiche politiche sempre più diverse, per misurare l’effetto di questa politica. Il sindaco, poi i governatori, giù giù sino ai rettori, simboleggiavano il carisma del potere. L’unico argine a questo concentrarsi di simbologie e individualismo è stata la moltiplicazione delle normative che avrebbero dovuto "oggettivizzare" scelte e decisioni. Quando oggi ci si lamenta della burocrazia, ci si lamenta di ciò che è stato chiamato a sostituire i corpi intermedi: la norma e non l’organizzazione del lavoro dei singoli corpi dello Stato. D’altronde il singolo non può che "emettere grida", senza più, nella maggioranza dei casi, neanche l’appoggio dell’"ingegnare capo del comune" (della memoria storica cioè dei processi amministrativi e sociali su cui quella grida interveniva).

Lo iato tra cittadinanza e rappresentanza non può allora che allargarsi. Il cittadino che vede violato quotidianamente il patto si auto-organizza, enfatizzando progressivamente un processo – il "not in my back yard", l’effetto "Nimby" – già dilagante nella società. O creando percorsi alternativi: il caso più clamoroso è quello della lotta alla droga, dove sono in gran parte le organizzazioni religiose o comunque private a garantire il diritto costituzionale alla cura. Tutto questo mentre la rappresentanza prendeva due strade. La celebrazione quasi celtica o ariana di un capo, divenuto leader, mentre i corpi intermedi, ormai ridotti a simulacri, rimanevano in grado però di emettere circolari, note esplicative, varianti, rendendo il rapporto del cittadino con la rappresentanza sempre più rancoroso.

Un processo che ha lasciato sulla sua strada infiniti cadaveri. Le assemblee rappresentative, in primis (dal Parlamento ai consigli comunali, a quelli di facoltà, per arrivare al minore, ma non senza influenze, corpo istituzionale). I corpi intermedi, destinati a perdere ogni capacità di elaborazione e ridotti a verificare, nel migliore dei casi, la legalità degli atti, nel peggiore a scrivere l’ennesima norma esplicativa o integrativa di un percorso già ridotto ad autentiche enclave della democrazia.

Oggi in realtà si è in presenza di un autentico cambiamento antropologico di figure chiave del rapporto tra cittadinanza e rappresentanza, salendo dal professore, ormai sempre più misurato sulla produttività (sul numero di articoli scritti, sugli allievi promossi, sulla sua capacità di siglare accordi, e via enumerando, non sulla capacità di formare), sino al membro del Parlamento che non ha più neanche il dovere di ascolto di un collegio che gli è stato quasi sempre assegnato e non "conquistato". Le articolazioni dello Stato dall’inizio degli anni Novanta si sono sgretolate senza scomparire (la vicenda delle provincie è quasi troppo emblematica), mentre il sistema di controllo era affidato quasi ogni giorno di più a tribunali (amministrativi o giudiziari, poco interessa). Il ricorso è diventata insieme l’arma estrema contro le diseguaglianze e soprattutto le ingiustizie, ma anche la pratica amministrativa in grado di indirizzare qualsiasi norma verso le "paludi" della democrazia.

Così, mentre ci si può illudere che la cittadinanza oggi si possa esercitare via mail o si possa praticare soggettivamente nei locali della Caritas o di Save the Children, si è tornati, ad esempio, a celebrare il paternalismo aziendale, dipinto come Welfare aziendale, esempi in realtà in grado almeno di surrogare la pratica di alcuni diritti costituzionali.

Ripensare la rappresentanza diventa in questa situazione il primo masso che si spera non sia sulle spalle dell’ennesimo e unico Sisifo, perché non può esistere democrazia che non strutturi la sua rappresentanza e ne definisca poteri e contropoteri. E forse il primo passo sulla montagna che il novello Sisifo deve muovere è la critica e a volte l’autocritica sul passato - non più solo e tanto quello prossimo - provando a rimuovere i tabù.