Tra i mille problemi esasperati dall’emergenza spicca la condizione dell’università, su cui gravano da tempo due scelte fondamentali compiute da chi ha governato il Paese in questi anni. La prima, e la più nota, è stata quella di sottofinanziarla. I dati sono risaputi: mettendo a confronto già solo i Paesi dell’Unione europea, l’Italia sta in coda. È tra i paesi in cui l’università, e dunque la ricerca, sono state più maltrattate. Per fortuna esistono le inerzie e nel confronto delle performances l’una e l’altra faticosamente, ma dignitosamente, resistono.
I costi sono tuttavia altissimi per chi lavora nelle università e negli enti di ricerca. Per i docenti in particolare è aumentato considerevolmente il carico didattico e sono cresciute enormemente le incombenze amministrative. Tra cui l’enorme burocrazia che circonda la didattica e la ricerca, corrispondente alla volontà di misurare le prestazioni di docenti e ricercatori in omaggio alla dottrina del New Public Management. Il criterio di valutazione specifico degli studiosi è da sempre la reputazione presso i loro pari. Lo ha sostituito il calcolo ragionieristico del numero di articoli che ciascuno ha sottoscritto, accertato mediante un enorme carico di moduli da compilare e tenere aggiornati. Una modulistica non meno estenuante è richiesta per disputarsi i pochi fondi disponibili per le attività di ricerca.
Aggiungiamo il vizio drammatico del precariato: una parte cospicua dell’insegnamento e della stessa ricerca è affidata a figure precarie. Il numero di posti messi a concorso è insufficiente e di parecchio sottodimensionato rispetto sia alle esigenze, sia alle competenze disponibili, in particolare rispetto al numero di giovani studiosi che hanno faticosamente completato la loro formazione di dottorato, in Italia e all’estero, spesso producendo risultati di rilievo. Ne consegue fra l’altro una condizione di perenne affanno nei meccanismi di reclutamento delle nuove leve di docenti e ricercatori.
È inadeguato anche l’ammontare di risorse destinate a finanziare non solo bandi di ricerca di una certa rilevanza scientifica, ma anche le attività più ordinarie, come quelle necessarie a organizzare o a partecipare a convegni, a seminari, a riunioni ecc. Simili attività sono comunque indispensabili per fare buona ricerca.
La seconda grande scelta che ha messo in gravissima difficoltà l’università italiana consiste nell’avere cessato di pensarsi e di funzionare come un sistema universitario nazionale e nell’avere introdotto uno spietato regime competitivo tra atenei. È successo, come sappiamo, anche al sistema sanitario, con pesanti conseguenze sul piano delle prestazioni e del benessere collettivo. Non si parte più dal presupposto che tutti i cittadini italiani abbiano diritto a fruire del medesimo servizio, ovunque gli capiti di vivere. Per quanto possibile, le università dovrebbero in tal caso erogare tutte prestazioni di elevata qualità, ferma restando la possibilità per gli studenti, alla luce di valutazioni personali, di studiare da qualche altra parte, magari senza sostenere costi eccessivi per una simile preferenza. Se non che, da alcuni anni le università sono in accanita competizione tra loro. Si disputano gli studenti, si disputano le risorse destinate alla ricerca, si disputano il personale docente e i ricercatori.
Questa scelta di policy, illuminata dal principio dell’autonomia e della responsabilizzazione degli atenei, ma dettata molto più realisticamente da esigenze di spesa, è stata disastrosa in special modo per le università del Mezzogiorno. Lo ha ben documentato in numerose occasioni Gianfranco Viesti (Università in declino, 2016; La laurea negata, 2018; https://www.eticaeconomia.it/la-questione-territoriale-delluniversita-italiana/). Il perché è facile da comprendere. Le autorità di governo si sono convinte a distribuire le risorse sulla base o delle performances accertate, o di criteri competitivi. Si sono però, com’era ovvio, avvantaggiati gli atenei che quando si è aperta la gara disponevano di un capitale più elevato, anzitutto di risorse finanziarie – fornito dal territorio circostante, dalle imprese, dalle grandi fondazioni bancarie – e di personale. Le università settentrionali hanno così agevolmente preso il sopravvento, lasciando dietro ad arrancare le università meridionali. Da allora piove sempre sul bagnato. Le università meridionali sono oggi largamente sottodotate sia in termini di mezzi per la didattica e per la ricerca, sia di personale. Ciò ha alimentato un cospicuo flusso di studenti dal Sud verso il Nord. Il flusso ha un costo enorme per le famiglie, che si dissanguano per offrire ai loro figli prospettive occupazionali più rosee tramite la migrazione accademica, ed è un danno grave per il Mezzogiorno: coloro che migrano per studiare, è dubbio che tornino, depauperando le regioni meridionali proprio dei giovani più ricchi di iniziativa e più disponibili al cambiamento.
Per contro un ulteriore e cospicuo beneficio è offerto alle università settentrionali, che vedono aumentare i loro introiti, grazie alle tasse universitarie, non senza alimentare il circolo vizioso che danneggia le università meridionali, che perdono studenti, mezzi finanziari e anche personale docente e ricercatori, attratti da più favorevoli – comparativamente – condizioni di lavoro. Su quest’ultimo punto il Decreto legge sulla semplificazione contiene nientemeno che paradossale previsione che facilita la mobilità dei docenti dalle università meno floride a quelle più floride, depauperando ovviamente le prime
La pandemia rischia di infliggere un grave colpo più che alle università alle giovani generazioni. Come hanno efficacemente argomentato Domenico Cersosimo e Felice Cimatti, gli studi universitari sono costosi e in uno sfondo di impoverimento il rischio che una leva di potenziali studenti sia costretta a rinunciare a tali studi è elevato. Con l’effetto di ridurre ancor di più la percentuale di laureati, che in Italia è anch’essa più bassa che nella stragrande maggioranza dei paesi europei. Il rimedio suggerito da Cersosimo e Cimatti è universalistico: abolire le tasse universitarie. Sarebbe un sollievo per i giovani, per le famiglie e per le stesse università. Solo che i problemi non si fermano qui.
Uno degli handicap maggiori del Mezzogiorno è notoriamente il suo deficit di infrastrutture. Università e ricerca rientrano tra le infrastrutture fondamentali. Quindi nel Mezzogiorno anche questo è deficit da colmare. Si sarebbe potuto sperare che il Covid sollecitasse un ripensamento e che sollecitasse la ricostituzione di un sistema universitario nazionale, colmando il gap profondo che si è aperto tra Nord e Sud. Non sta succedendo niente di tutto questo. Piuttosto il governo sembra orientato a adottare ancora una volta norme destinate a ribadire e accentuare la competizione tra le istituzioni universitarie e perciò ad aggravare il gap. Il già citato Decreto sulla semplificazione vorrebbe estendere la possibilità per gli atenei di dotarsi di una propria organizzazione interna. Si potrebbe così realizzare quanto già previsto, ma finora mai attuato, dalla Legge Gelmini. Sarebbe di fatto una variante dell’autonomia differenziata. È singolare che questa proposta venga rilanciata da un ministro che è stato rettore di una delle maggiori università del Mezzogiorno.
In attesa di una simile innovazione normativa, è intanto esploso il bellum omnium contra omnes tra gli atenei. Tutti a Nord e a Sud ragionano della possibilità di ridurre le tasse universitarie o lo hanno già fatto. Sarà un costo per tutte, ma sarà necessariamente più elevato per le università economicamente più deboli, che sono quelle situate nel Mezzogiorno. La Regione Sicilia ha inoltre introdotto un contributo finanziario per gli studenti che decidessero di iscriversi negli atenei dell’Isola, spingendo gli atenei settentrionali a strapparsi le vesti per lesa concorrenza. La Regione Sardegna pare intenzionata a finanziarie un ennesimo polo universitario senza radici in quel di Olbia. Vedremo gli altri.
Molti atenei stanno inoltre investendo risorse per trasferire parte delle attività didattiche online: gli studenti meridionali, un po’ perché preoccupati da un ritorno di fiamma del Covid, un po’ perché meno in grado di sostenere i costi del soggiorno in un’altra città, potrebbero preferire non muoversi. La didattica online sarebbe un modo per tenersi anche a distanza gli studenti meridionali. Qualcosa sulla didattica online stanno facendo anche gli atenei meridionali, che però hanno meno risorse da investire in un’impresa indubbiamente costosa. L’effetto più grande comunque è un generalizzato scadimento qualitativo della didattica. La didattica online può essere una buona tecnica di insegnamento in condizioni particolari: l’emergenza Covid è un caso. Potrebbe essere un utile sostituto per gli studenti che lavorano e un’integrazione per quelli a tempo pieno. Ma è inutile girarci attorno: come hanno sostenuto in tanti la didattica online è tutt’altra forma d’insegnamento, nella quale si perde completamente il valore dell’interazione diretta tra docenti e studenti e tra gli stessi studenti. Che è un elemento irrinunciabile, da qualche secolo, di ogni formazione universitaria. Di didattica online ne offrono a sufficienza le università private. Perché mai dovrebbero offrirla pure le università pubbliche anche in tempi e condizioni normali?
Una recente ricerca, coordinata da Francesco Ramella e Michele Rostan (Universi-Dad. La didattica a distanza degli accademici italiani durante il semestre Covid-19, Unires e Centro Luigi Bobbio, Cps-UniTo, 2020), ha evidenziato la grande soddisfazione dei docenti per la risposta che l’università è riuscita a dare rispetto all’emergenza sanitaria, garantendo lezioni, esami e tesi. La quasi totalità dei docenti ritiene però che la didattica a distanza non possa e non debba sostituire la didattica in presenza. Sono tanti coloro che vedono vantaggioso predisporre forme di didattica integrativa e complementare, ma sono ancor di più coloro che sono preoccupati di una espansione generalizzata e sostitutiva della prima rispetto alla seconda. In effetti, uno dei rischi della diffusione e della normalizzazione della didattica online è che una strategia “imprenditoriale” adottata da alcuni atenei per salvaguardare il proprio bacino di studenti si risolva in uno scadimento diffuso e duraturo dell’insegnamento universitario.
Va da sé che si potrebbe anche seguire tutt’altra strada. Il Covid potrebbe costituire l’occasione per ripristinare un sistema universitario nazionale coerente con quanto è previsto dalla Costituzione, senza serie a e serie b. Ovviamente reinvestendo sulle università meridionali. Non si tratta di concedere finanziamenti a fondo perduto. Il loro impiego va accuratamente programmato e rendicontato e va valutata la resa dell’investimento. In alcuni casi gli atenei possono dividersi il lavoro su scala regionale. Mentre università al momento meglio attrezzate possono aiutare quelle che lo sono meno, attivando politiche di collaborazione finalizzate a colmare l’attuale gap. Ma tutto questo forse chiederebbe agli universitari di mobilitarsi. Ai docenti e agli studenti. E non è questa l’aria che tira.
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