Una madre, quattro figli. Questi sono i numeri essenziali della Foce. Lei è Benedetta, loro si chiamano Antonio, Katia, Giovanna, Simonetta. Una storia nata come sogno culturale, e anche politico: dare lavoro, educazione, futuro ai contadini della Val d’Orcia.
Lei, Benedetta, è la figlia del marchese Antonio Origo e di Iris, la coraggiosa scrittrice che ha raccontato tanto della Terra di Siena nei suoi appassionati libri, di come si prodigò per assistere i bambini profughi e offrire rifugio agli alleatiprigionieri, in fuga dalla Seconda guerra mondiale.
Loro sono figli della musica, e di papà Alberto Lysy. Prima di divenire un violinista di fama mondiale, Lysy era un ragazzo di Buenos Aires senz’arte né parte, che osò bussare alla porta di sua maestà Yehudi Menuhin. Il grande maestro non aveva tempo per dargli lezioni, ma dopo un po' si lasciò convincere dalla dolce insistenza del fanciullo. Sino a farne un figlio putativo, cui affidò un Guarneri del 1742. Nel frattempo, a casa Menuhin, i libri di Iris venivano letti con avidità, e una lettera partì di lì alla volta della Foce. Una lettera di ringraziamento per i bei viaggi letterari toscani, con allegata la richiesta di un consiglio: i Menuhin intendevano assoldare Tatina, la balia che aveva cresciuto i ragazzi di casa Origo, magnificata proprio nei racconti di Iris. La raccomandazione si tramutò in un invito a la Foce, da cui nacque prima un’amicizia, poi un amore: tra Benedetta, che studiava pianoforte nella prestigiosa classe fiorentina di Rio Nardi, e il giovane argentino.
Oggi Alberto non c'è più, ma sua moglie, i quattro figli, dieci nipoti e una pronipote, proseguono il sogno Origo. In un tempo spietatamente anacronistico per chi vive del puro bello, portare avanti l'utopia della Foce è una privata follia che desta la stupita ammirazione dei visitatori. «Mio padre me lo diceva sempre: se hai una proprietà o le dai il meglio di te, oppure è meglio che te ne disfi», ricorda Benedetta. Perciò tutto è d’incanto in questo luogo sorto su un insediamento etrusco, lungo la via Francigena, accogliendo rispettosamente la Villa originaria, costruita nel XV secolo come ostello per pellegrini e mercanti. Nel 1924 la tenuta fu acquistata da Antonio e Iris che impiantarono, nel cuore di creta e di pietra di una terra tormentata dalla povertà, un emblema di rinascita sotto le sembianze di giardino. Ammantato da fiori felici e irrorato di fontane, dove la tiepida ombra dei lecci accoglie artisti e musicisti, e molte varietà di rose, aiuole di bosso, siepi di alloro, cespugli di essenze mediterranee e filari di cipressi riempiono le geometrie capolavoro di Cecil Pinsent, esso rappresenta un esempio sublime di equilibrio tra paesaggio e architettura novecentesca, tra il gusto italiano e inglese, riflessi nelle armoniose vetrate della limonaia.
Nel piano alto di questo parco a terrazze si attraversa il maestoso tunnel di glicine che ogni anno, ad aprile, ricambia l'amore di tante cure regalando a Benedetta la gioia della fioritura. Lo si percorre come un botanico rito di passaggio, che sbocca a mezz’aria tra le valli di Chiana e d’Orcia, «perché proprio questo è il senso della Foce: un’apertura, tra una valle e un’altra», mentre la collina fiorita digrada in bosco e il giardino trascolora in selva, «perché l’animo respiri pensieri sempre più liberi, ascendendo alla montagna», spiega la Origo, con quell’accento anglo-toscano che è il marchio d’eleganza di una famiglia nobile con pudica autenticità.
E mentre la vita cambia, mutano le abitudini, si trasformano le possibilità, ecco che intorno a Benedetta si è stretto l’amore dei suoi figli, cresciuti in giro per il mondo ma che da grandi hanno sentito la chiamata al buen retiro, e oggi sono legatissimi alla Foce. Benedetta vive qui tutto l’anno, gli altri tutte le volte che possono. Katia ha lasciato Roma per dedicarsi con il marito al Dopolavoro, la locanda costruita nel 1939 quale mensa per i mezzadri, dove si ritrovavano per bere un bicchiere di vino, ballare o giocare a bocce, e che oggi è un ristorante a tutela dei sapori autoctoni. Simonetta balla. Ha studiato al Royal Ballet di Londra ed è sposata a un danzatore polacco che dirige il Balletto di Varsavia. Giovanna è un’artista che ha trasferito il suo atelier di sculture alla Foce. Mi porta nella sua stanza segreta e appaiono attrezzi della terra rivisitati dal vetro e dalla luce, per restituire a quegli oggetti il calore del sole dei campi. Tra essi scorgo una scultura che si chiama Nota, omaggio ai suoni degli strumenti al lavoro: è una croma, costruita su un disco del frantoio, il cui stelo è forgiato nel ferro dei cerchioni delle botti di vino, «un simbolo del tempo che ferma il tempo, nell’unione tra la forza dei contadini e dei miei nonni».
Come un passaggio di testimone generazionale di arte in arte, nonna Iris regalò un violoncello Carlo Tonon del 1700 al nipote, Antonio come il nonno, musicista come il padre. Antonio Lysy è cresciuto con i suoni delle estati alla Foce, «dove portavo il violoncello fuori a studiare», mi racconta. Oggi è il genius loci dell’armonia che, sono stati ventiquattro anni esatti a fine luglio, negli spazi della memoria di famiglia, organizza il festival Incontri in Terra di Siena. Il pubblico gremisce la corte interna della Villa, l’ombelico è un pozzo, l’emozione del concerto di apertura si chiama Ian Bostridge e s’irradia sotto un cielo racchiuso nella cornice quadra del cortile, entro cui scorrono gli azzurri e i blu di un tramonto sempre più lontano. Tacciono i piedi sulla ghiaia, tacciono le cicale e gli stormi di passeri. Tutto è silenzio, se non la voce di Brahms e Mahler. E il pianoforte di Julius Drake.
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