Può navigare una barca senza timone? Non occorre essere ingegneri navali o provetti lupi di mare per rispondere decisamente di no. Non può. Affonderebbe. Eppure, la barca del Pnrr, presentata a vele spiegate nel pieno della pandemia come la via miracolosa per venire fuori dalla crisi, ricostruendo dalle fondamenta l’ormai agonizzante modello di sviluppo italiano (non è stato solo colpa del Covid: venivamo da due decenni almeno di depressione), galleggia oggi mollemente in acque stagnanti, pressoché immobile, comunque senza sapere affrontare il mare aperto: un potenziale relitto.
Fuor di metafora, valgono i numeri. Cito due dei nostri migliori studiosi, Alessandro Natalini e Fabrizio Di Mascio: “È opinione diffusa – hanno scritto di recente – che l’Italia sia giunta all’appuntamento con l’attuazione del Pnrr senza poter contare su un consolidato repertorio di politiche e strumenti per la costruzione della capacità amministrativa”. La capacità amministrativa, ecco il punto: età media del personale troppo avanzata, competenze vecchie e inadeguate a realizzare gli obiettivi, assenza o insufficienza delle nuove professionalità necessarie, solo relativa confidenza con le problematiche europee e in genere sovranazionali (invece oggi dominanti), innovazione quasi assente, ritardi vistosi nella digitalizzazione, dirigenza forse poco preparata ma comunque messa da tempo all’angolo, mentre aumentano i dirigenti arruolati senza concorso; e una capacità di spesa tra le più ridotte (e miopi) d’Europa. Ma soprattutto – insisto – sostanziale inerzia nel realizzare una delle fondamentali pre-condizioni del Pnrr: la riforma organica dell’amministrazione pubblica.
Si dirà: è una storia vecchia, anzi vecchissima. È la storia del riformismo amministrativo in Italia, disseminata di sconfitte, a cominciare da quella, dolorosissima, subita nel 1980 con l’allontanamento dalla Funzione pubblica di Massimo Severo Giannini, un ministro che aveva le idee chiare e che tracciò all’epoca una linea di radicale rinnovamento. Abbiamo avuto, certo, stagioni di intensa produzione normativa (le leggi Bassanini) ma ormai, a distanza di anni, possiamo ben dire che l’effetto, la ricaduta pratica delle norme sulle pratiche amministrative, è stata modesta, comunque non tale da realizzare gli ambiziosi obiettivi del legislatore. Dopo decenni di riforme o sedicenti tali, prive di un’adeguata cabina di regia che ne assicurasse la continuità, abbiamo di fronte un campo d’Agramante disseminato di relitti. Basterebbe guardare alla spropositata semina legislativa, alle oltre 100 mila leggi e leggine, al loro confuso groviglio. E, per dirne solo una, alla lingua indecifrabile che le caratterizza.
Eppure, senza riforma amministrativa, senza una riforma amministrativa al passo coi tempi nuovi, non c’è timone che tenga, la nave ammaina le vele, immobilizzata in acque stagnanti.
Non si vede nei programmi dei partiti alcun segnale serio, non dico di soluzione, ma per lo meno di consapevolezza del problema
Che fare? Non si vede nei programmi dei partiti alcun segnale serio, non dico di soluzione, ma per lo meno di consapevolezza del problema. Tuttavia, nei giorni scorsi il Pd, dopo i tanti silenzi sul tema (si è fatto – diciamolo – piccolo cabotaggio), è tornato meritevolmente a promuovere una riunione nazionale sul punto, coinvolgendo i suoi parlamentari (pochi di loro, per la verità) e una platea varia di esperti, studiosi, sindacalisti. Si vorrebbe – si è detto – riprendere il filo del discorso lasciato troppo a lungo cadere. Cambiare marcia.
Ottimo proposito. Sta cambiando il mondo, con l'avvento già in atto del digitale e quello più che annunciato della intelligenza artificiale. Non ne siamo abbastanza consapevoli forse, ma siamo giunti a una di quelle svolte della storia complessiva del mondo, la grande storia, dalle quali non si può tornare indietro. Possiamo pensare di affrontare questa nuova fase storica con le risorse e le performance modeste del vecchio modello amministrativo all’italiana? Possiamo una volta di più favoleggiare di riforme, fare e disfare progetti, smarrirci magari nella produzione di leggi e leggine, senza chiederci una buona volta dove stiamo andando? Senza affrontare il decisivo problema del timone, e poi subito dopo quello della rotta?
Predicava Giannini: prima si devono stabilire quali funzioni ci servono; poi – in rapporto ad esse – determinare quale organizzazione costruire; infine (ma solo in ultimo) selezionare il personale adatto a realizzare quelle funzioni nell’ambito di quel modello amministrativo. Non personale generico assunto in base alle necessità occupazionali ma quadri scelti in modo mirato, per partecipare a quella organizzazione e per svolgere quelle funzioni. Una rivoluzione non solo organizzativa, ma innanzitutto culturale.
Prima si devono stabilire quali funzioni ci servono; poi determinare quale organizzazione costruire; infine selezionare il personale adatto a realizzare quelle funzioni
Ma allora forse è giunto il tempo propizio per formulare una proposta: lanci qualcuno – io vorrei che lo facesse il Pd, partito guida dell’opposizione – una idea concreta di riforma dell’amministrazione. Sfidi su questo terreno la maggioranza e il governo. Proponga di creare una zona neutra, al riparo dal conflitto politico quotidiano. E tutti i partiti, che (tutti, almeno a parole) dicono di volere la riforma, concordino una linea comune. Si prenda impegno davanti al Paese e in Parlamento di rispettare questa linea anche nel caso (in Italia più che probabile) di repentini cambi di governi e di maggioranze. Si tenga fermo questo "cessate il fuoco" per una, magari per due legislature. Un grande patto nazionale per riformare e modernizzare a fondo (per rifondare, se serve) quello che è oggi e sempre più dovrebbe essere domani il vero motore del Paese.
Una piccola svolta di Salerno nell’amministrazione, insomma, se non è troppo ambizioso chiamarla così. Nel 1948, nel pieno della Guerra fredda, i padri costituenti seppero tuttavia scrivere, uniti tra di loro, la Costituzione repubblicana, tenendola saggiamente al riparo dal conflitto politico quotidiano. Perché non si potrebbe fare lo stesso per la riforma dell’amministrazione?
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