Una settimana per giudicare un governo che quasi tutti, da destra come da sinistra, presentano come una svolta storica è un tempo un po’ troppo breve. Tuttavia qualche iniziale indicazione è già stata data. Per una prima valutazione ci dobbiamo basare sulle parole dette: se lo facciamo con distacco, scopriamo che sono parole per lo più ambigue, polivalenti.

Giorgia Meloni è rimasta vittima, più di quanto non voglia riconoscere, delle simbologie che le hanno cucito addosso (anche ritagliando quelle che si era confezionata in altri tempi). Con questi abiti ha dovuto esordire in un ruolo per lei del tutto nuovo: donna/uomo di governo, insediata dalla combinazione fra il portato di una legge elettorale demente elaborata dall’universo dei partiti (che si erano rifiutati di cambiarla) e il concorrente apporto di quanti non potendone più della politica politicante si sono astenuti e di quanti invece hanno scelto di provare il cambio di passo puntando su una componente che appariva loro come estranea al teatrino della precedente legislatura. Nessuna esperienza pregressa di governo (il suo marginale ruolo di junior minister in un governo Berlusconi tale non può essere considerata), moltissimo fiuto per cogliere le pulsioni di una società spaesata.

Ovviamente doveva compensare nel suo primo “apparire” nel nuovo ruolo le aspettative di chi l’aveva votata per ripudio dei populismi avventurieri, tanto di destra quanto di sinistra, e di chi voleva vivere la sua vittoria come una rivincita storica di un vago e multiforme “polo escluso” (che da tempo non lo era più). Per questo ha unito una posa da “statista”, soprattutto in politica estera, a una riproposizione della retorica vagamente identitaria delle diverse destre che ha raccolto sotto le sue bandiere. Parliamo di retorica vagamente identitaria perché nasce semplicemente dall’esigenza di mostrare che alle parole del mainstream di “sinistra” se ne possono sostituire altre che ad esse sarebbero alternative.

Meloni ha unito una posa da “statista”, soprattutto in politica estera, a una riproposizione della retorica vagamente identitaria delle diverse destre che ha raccolto sotto le sue bandiere

Si tratta, naturalmente, di un gioco di specchi. Prendiamo ad esempio la stucchevole polemica su “nazione” al posto di “paese”. Il primo termine è tranquillamente usato per esempio quando si parla di “interesse della nazione”, essendo questo più chiaro per identificare il corpus politico-istituzionale. Il secondo termine si usa per indicare una certa realtà sociologica che identifica il contesto in cui si vive e che è più sfuggente e soprattutto in continua evoluzione. Poi di nazione si può parlare nel senso di Mazzini o in quello del fascismo, così come si può giocare sull’eterna dicotomia fra paese legale e paese reale.

Sono diatribe buone per i talk show, dove ora, per aumentare l’audience inserendo nuovi tipi di gladiatori, si ripescano giornalisti legati alla storia del vecchio Msi o si dà spazio a quelli che possono vestire i panni della nuova destra.

Strumenti di distrazione di massa, per ora, con il duplice scopo di accontentare qualche aspettativa dei pasdaran della destra, ma soprattutto di eccitare quelli della sinistra

In concreto per ora il governo Meloni si è limitato agli annunci: ovviamente si dovrà attendere la loro formalizzazione in atti normativi per capire dove davvero questo governo vorrà andare a parare. Certamente, almeno a mio avviso, si è trattato per lo più di strumenti di distrazione di massa che avevano quasi tutti il duplice scopo di accontentare qualche aspettativa dei pasdaran della destra, ma soprattutto di eccitare quelli della sinistra, che si sono buttati subito a rivestire i panni dei novelli Giacomo Matteotti che denuncia l’avvento del fascismo (dimenticando l’avvertimento del buon Marx, secondo il quale spesso quando si cerca di ripetere la storia la si riduce a farsa).

L’elenco è facile da mettere insieme. Partiamo dalla diatriba sulla riforma del limite all’uso del contante. Che il limite esistente non sia servito ad impedire tutte le prestazioni “in nero” lo sanno tutti i cittadini che usano varie tipologie di servizi e così debbono pagarli. Che la liberalizzazione del pagamento in contanti serva a rilanciare l’economia lo possono credere solo gli allocchi. È evidente che si tratta di uno scontro fra chi pensa che debbano esistere regole di orientamento, anche se non sono sempre efficaci, e chi invece si fa fautore di una assenza di limitazioni alle volontà individuali. Andrebbe valutato dove si finisce spingendo solo in una delle due direzioni.

La questione del reddito di cittadinanza è altrettanto mal impostata. Che ci siano stati abusi e malversazioni è noto, che questi si colpiscano privando di un sostegno chi è in difficoltà economica è assurdo. Sorprende che nessuno sollevi la più banale delle questioni: chi risponderà del fallimento della politica del primo governo Conte che ha sperperato soldi in “navigator” che non hanno risolto niente e soprattutto in un signore chiamato dagli Stati Uniti e pagato a peso d’oro per guidare quelle politiche, che a nulla è servito? Piccolo particolare: in quel governo non c’era solo il M5S, c’era anche la Lega con vicepremier Matteo Salvini.

E che dire della flat tax, della riforma delle pensioni, argomenti buttati lì con colpi di gran cassa, ma per dire subito che i tempi sono difficili e ne parleremo poi? Ci sarebbe spazio per incalzare il nuovo governo con contro-progetti sugli argomenti che abbiamo citato e su altri, ma due opposizioni, Partito democratico e M5S, si trastullano in polemiche pseudo-ideologiche, mentre Azione-IV prova a distinguersi, affermando che non avrà problemi a sostenere pur dall’opposizione proposte valide del governo. Per ora però di sue non se ne vedono (per inciso: è ridicolo che Letta accusi chi sostiene questa impostazione, normale in tutte le democrazie mature, di voler piantare le tende nel campo nemico).

Insomma, sotto il vestito da premier per ora non c’è la sostanza di un programma politico (chiamatela agenda, se preferite: il termine indicherebbe le cose da fare, ma il significato delle parole si è perso per strada). È ragionevole supporre che Meloni non lo possa fare in modo esplicito per non mettere subito in crisi il controllo sulla sua turbolenta ciurma, ma ciò non ci consente né di valutare se davvero c’è stata una svolta e di che svolta si tratta, né di intervenire dialetticamente per esaminare delle proposte e di capire se contrastarle, lavorare per modificarle, appoggiarle.

Ciò che, in definitiva, dovrebbe fare un’opinione pubblica degna di questo nome.