Lo ammetto: non ero preparata. Cuba è un Paese del terzo mondo, ma finché non vedi non credi. Si faticano a immaginare le medaglie d’oro olimpiche, i campioni della danza o le eccellenti menti scientifiche vivere in condizioni che in Europa sono riservate agli ultimi. I cubani sono tutti poveri, nessuno escluso. Non muoiono di fame, ma non possono permettersi più dello stretto indispensabile, acquistato con la tessera annonaria che chiamano libreta. Crescono in case senza intonaco, dove gli asciugamani sono un lusso, come l’acqua calda. Le cucine ospitano torri di stoviglie su un terreno che non è detto sia pavimento, perché i pensili, se non ce li hai, mica ti metti a buttar soldi per comprarli. Il telefono è un miraggio. E non dico il cellulare, che costa una follia sia per chiamare sia per ricevere anche entro i confini nazionali, ma pure il fisso è roba da ricchi. Internet non esiste. È interdetto alla popolazione, anche se in molti cominciano a impratichirsi con una rudimentale illegalità informatica. I ministeri attribuiscono delle speciali caselle di posta intranet ad atleti o a personalità della cultura, consentendo l’utilizzo di un indirizzo e-mail senza possibilità di accesso al mondo della Rete.
Attraversando Cuba si fanno spazio emozioni contrastanti. Un territorio che puoi percorrere in solitario montando sugli almendrones come sui bus di linea, un Paese sicuro, dove la criminalità è quasi assente. Anche perché da Cuba non si esce se non rischiando la pelle, oppure, se ti distingui per meriti speciali, affrontando un’estenuante trafila burocratica che si traduce in viaggi d’istruzione, gare o performance in territorio straniero. A Cuba sono tutti liberi e tutti prigionieri. Liberi di non avere un peso, e quindi di poter suonare, operare o saltare in lungo solo per il piacere di farlo. Schiavi di non avere un peso, perché senza moneda resti lì dove sei, nella casa di famiglia, con una macchina di settant’anni fa che ti fa passare qualsiasi fantasia di fuga. Ma la libertà di poter fare tutto non per guadagnare a noi poveri di spirito suona come il vero lusso. Perché tutti hanno quello stesso poco e vivono per arricchire un talento, per coltivare una passione che diventa motore di vita.
I musicisti cubani non riscuotono un cachet, sono pagati dallo Stato per fare ciò per cui sono nati: se viene chiesto loro di suonare, a casa di amici o in un teatro prestigioso, semplicemente suonano. La leggenda accanto al giovane, perché la differenza tra il big e la promessa è solo in termini anagrafici. E il bello della musica non è soltanto nel piacere di suonare, ma anche nella condivisione di quel medesimo piacere: non può esistere competizione in un popolo che professa un’ostinata uguaglianza. I cartelloni che citano José Martí gridano da ogni angolo “un uomo colto è un uomo libero”, i cubani si cibano di cultura senza conoscere il sapore dell’ambizione. Il più appagante nutrimento si chiama dignità e rappresenta il senso dell’eredità cubana che si vorrebbe mantenere in un domani sicuramente diverso per quest’isola-utopia. Nel presente, intanto, può capitare di assistere alla rivoluzione culturale che qui si compie quotidianamente, nel paradosso di una serata americana all’Avana.
Pietro lavora all’Ambasciata italiana e mi ha invitato alla festa organizzata dal Capo missione americano John Caulfield e da sua moglie Nancy, “en honor del notable músico e intérprete de jazz Arturo O’ Farrill”, come si legge sull’invitación, figlio americano di un grande musicista cubano che di nome faceva Chico. A ben vedere, la cartolina giunge dall’Ambasciata svizzera, che a Cuba rappresenta gli Stati Uniti dal 1961, ospitando una Sezione di interesse statunitense che nelle relazioni con le autorità locali fa uso dell'emblema elvetico. Superata la cortina di mondanità imposta dal colonnato di questa villa affacciata su un ampio giardino con piscina, comprendo di essere testimone di un evento unico. Se il tempio ove si celebra il rito diplomatico ritrova i crismi della liturgia nei pavimenti di marmo, nei lampadari di cristallo e nelle eleganti finestre all’inglese, il pubblico che affolla la sala è tutt’altro che ufficiale: davanti ad Arturo O’ Farrill e ai suoi musicisti siedono sì i signori della politica internazionale, ma anche un’informale comitiva cubana. Le vado incontro, e mi scontro con una dama piccola dal viso prezioso, fasciato in un fazzoletto dai colori sgargianti. Mi rivolge uno sguardo pieno di sorpresa, che riflette il mio sbigottimento: sono finita tra le braccia della voce di Cuba, Omara Portuondo. Movimenti inconsueti animano intanto la platea, c’è chi si alza, chi sopraggiunge dal fondo del salone. È in atto un’autentica inversione di ruoli: gli ascoltatori stanno per essere ascoltati. Si dispongono sul palco, dietro la band di O’ Farrill, Jasek Manzano, trombettista di culto della nuova generazione, il pianista Harold Lopez-Nussa con l’altrettanto formidabile fratello batterista Ruy, il chitarrista Pablo Menéndez, i sassofonisti Michel Herrera ed Ernesto Camilo. Una dozzina di artisti sensazionali si sfidano in assolo uno dopo l’altro, in provocazioni musicalmente sempre più ambiziose.
Niente di tutto questo era previsto, né dovuto; il pubblico lo intuisce e si lascia contagiare dall’euforia dell’improvvisazione. La musica, in una sera, fa dialogare meglio di un summit politico, esonda dai bordi del programma di sala e si stampa sulle facce di chi ha allentato il nodo alla cravatta, rimanendo lì non per trascinare il tempo, in quell’interregno spesso occupato dalla musica tra l’ora dell’aperitivo e la cena, ma perché inchiodato a se stesso dal quel fatidico puro piacere. Alcuni anziani cubani cominciano a ballare a occhi chiusi. Siamo in una grande villa di gusto europeo, ma in realtà questa è casa loro.
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