Il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 ha rappresentato un turning point dell’evoluzione istituzionale italiana. Per un verso, ha scoraggiato ogni ulteriore tentativo di procedere a riforme costituzionali complessive, o comunque al loro interno coordinate.
Per altro verso, ha sancito la conservazione del bicameralismo paritario e perciò, come la Corte costituzionale ha prontamente avvertito (nel monito finale della sentenza n. 35 del 2017), per consentire una qualche funzionalità alla nostra forma di governo ha spinto verso una sostanziale omogeneizzazione dei due rami del Parlamento.
La legge di revisione costituzionale sulla riduzione dei parlamentari, approvata in meno di un anno (per l’esattezza un anno meno due giorni, l’iter essendo stato avviato, con una discussione sull’ordine dei lavori in Commissione affari costituzionali del Senato, il 10 ottobre 2018) e con un altissimo consenso in occasione della sua quarta lettura alla Camera l’8 ottobre 2019 (nella terza lettura Senato, invece, il quorum dei due terzi dei componenti è stato mancato per 35 voti), è il frutto coerente di quel turning point.
Essa procede infatti esclusivamente, con un micro-emendamento alla Costituzione, a ridurre rispettivamente a 400 e a 200 il numero dei deputati e dei senatori (una riduzione di poco più di un terzo) e compie due operazioni a ciò strettamente consequenziali: riduce (egualmente, di un terzo) i parlamentari eletti all’estero e codifica l’interpretazione secondo cui i senatori a vita di nomina presidenziale non possono in ogni caso superare il numero di cinque.
Sono stati invece ritenuti inammissibili – con decisione dei presidenti di Assemblea discutibile (cfr. “Quaderni costituzionali”), ma, nella logica dei micro-interventi di revisione costituzionale, fors’anche comprensibile – gli emendamenti volti a introdurre la disciplina di materie pur a questa contigue e strettamente connesse, quale in particolare l’abbassamento delle soglie di elettorato attivo e passivo per l’elezione del Senato. Una disciplina, quest’ultima, che è confluita in un autonomo progetto di legge costituzionale, che è stato approvato in prima lettura dalla Camera il 31 luglio 2019 (A.S. 1440), e che prevede appunto, come da tempo ritenuto necessario, al fine di evitare che i cittadini tra i 18 e i 24 anni dispongano di “mezzo voto” rispetto agli over 25, che per votare per il Senato sia sufficiente aver raggiunto la maggiore età.
Il giudizio su questa legge di revisione costituzionale non può prescindere da quel turning point: inutile sostenere, come pure si è affermato da più parti, che ci sarebbe voluta una riforma più complessiva; o che sarebbe stato più sensato, in alternativa, differenziare le funzioni tra le due Camere. Quelle vie sono state già reiteratamente tentate in passato, si sono scontrate con molteplici fallimenti, variamente motivati, e riproporle ora finisce inevitabilmente per apparire come una posizione strumentale, in realtà cioè ispirata a lasciare le cose come stanno (o comunque a trovare sostegno politico tra coloro che si pongono questo obiettivo).
Considerata in sé, come punto di attacco della nuova stagione del riformismo istituzionale, la riduzione del numero dei parlamentari non è affatto sbagliata
Considerata in sé, come punto di attacco della nuova stagione del riformismo istituzionale, la riduzione del numero dei parlamentari non è affatto sbagliata. Non può essere sottaciuto che l’Italia si caratterizza a tutt’oggi per il Parlamento “elettivo”, se considerato nel suo insieme, più numeroso in Europa, e non tanto per scelta esplicita del Costituente, quanto soprattutto a causa della crescita della popolazione registratasi negli anni Cinquanta e di cui la legge costituzionale n. 2 del 1963 prese atto, stabilendo un numero fisso di parlamentari. Studi di politica comparata stimano che il numero ideale dei componenti della Camera bassa sarebbe pari, per l’Italia, a 360 (il numero dei rappresentanti essendo intorno alla radice cubica della popolazione: cfr. Luiss/Cise).
La riduzione piuttosto drastica dei parlamentari è stata, del resto, una costante del riformismo costituzionale italiano (cfr. Osservatorio sulle fonti) e proprio i numeri di 400 deputati e 200 senatori erano presenti nella proposta Quagliariello-D’Alema, prospettata come alternativa alla riforma Renzi-Boschi alla vigilia del referendum; e si ritrovano pure nella relazione con cui la Commissione De Mita-Iotti consegnava alle Camere l’esito dei suoi lavori (A.C. 3597; A.S. n. 1789, 11 gennaio 1994). Si aggiunga che, secondo quel che osservava proprio Nilde Iotti in tempi non sospetti (in un video ritirato fuori, non a caso, prima dell’ultimo passaggio parlamentare), negli ultimi decenni le sedi di rappresentanza si sono moltiplicate, sia nelle autonomie territoriali (nonostante la sostanziale abolizione dei consigli provinciali), sia a livello europeo (con l’elezione diretta prima, e l’empowerment poi del Parlamento europeo). E infine che, da un lato, con la crisi e la de-istituzionalizzazione dei partiti, è divenuto più difficile selezionare personale politico di livello adeguato; e, dall’altro, le leggi elettorali susseguitesi negli ultimi decenni non hanno certo aiutato a rafforzare la vicinanza tra i cittadini e i “loro” parlamentari.
Certo, è facile rilevare che le ragioni in nome delle quali la misura in questione è stata propugnata e portata avanti sono tutt’altro che condivisibili; e, anzi, appaiono per più versi minacciare, se estremizzate, i fondamenti della democrazia rappresentativa e della stessa fiducia nelle istituzioni. Non è in nome delle accuse alla “casta” e della riduzione dei “costi della politica” che si può intraprendere una seria azione di revisione del nostro assetto istituzionale (anche se anche l’elemento dei costi non andrebbe sottovalutato, specie in una fase in cui ai cittadini si chiedono sacrifici non piccoli).
Ad ogni modo, come spesso accade per le riforme costituzionali, il giudizio sulla riforma dipenderà per larghissima parte dalla sua attuazione. In questo caso, invero, pure dalla sua “integrazione” con il già ricordato abbassamento della soglia per esercitare l’elettorato attivo per il Senato. Ma anche e soprattutto dalla sua attuazione con una nuova legge elettorale che, secondo gli intendimenti della maggioranza, dovrebbe presto seguire. Su quest’ultima, come è evidente, e secondo il pessimo costume italico, si giocherà la partita politica nella restante parte della XVIII legislatura, avendo come soluzione “di default” la legge n. 165 del 2017 con i collegi ridisegnati sulla base della delega di cui alla “leggina” n. 51 del 2019 (sulla quale, per inciso, con un’astuta opera di ritaglio e manipolazione, si appoggia ora la richiesta di referendum presentata da otto consigli regionali al fine di aggirare il nodo del ridisegno dei collegi uninominali su cui applicare il meccanismo del first-past-the-post).
Molto dipenderà, infine, dalla revisione dei regolamenti di Camera e Senato che una così drastica riduzione dei parlamentari indubbiamente richiede
Molto dipenderà, infine, dalla revisione dei regolamenti di Camera e Senato che una così drastica riduzione dei parlamentari indubbiamente richiede. Le opzioni di fondo contenute nei regolamenti di Camera e Senato, risalenti peraltro al 1920 nella loro impostazione di fondo e al 1971 nella loro architettura, in tema sia di organizzazione (si pensi ai gruppi, alle commissioni permanenti e bicamerali), sia di funzionamento delle Camere (basti pensare ai vari quorum, ma anche alla distribuzione dei carichi di lavoro), vengono ad essere poste profondamente in crisi da un mutamento siffatto. L’intento, in più sedi dichiarato, di riqualificare l’attività parlamentare esige che queste opzioni di fondo si rimeditino in profondità.
Una riscrittura dei regolamenti parlamentari potrebbe, in fin dei conti, non essere una cattiva notizia per il nostro sistema istituzionale. A maggior ragione, visti i tanti meccanismi che in questi anni non hanno funzionato o sono stati abusati – nonostante gli allarmi in più occasione lanciati dalla presidenza della Repubblica e dalla Corte costituzionale –, al fine di garantire una qualche funzionalità alle Camere e al procedimento legislativo. E altresì in considerazione dell’esigenza di adattare il parlamentarismo contemporaneo ai tanti mutamenti intervenuti: non solo a causa dell’evoluzione tecnologica, ma anche nella forma di Stato e nel sistema dei partiti.
C’è da sperare che su questo cantiere Camera e Senato, auspicabilmente stavolta in stretto coordinamento tra loro, si mettano alacremente al lavoro, per evitare un ulteriore discredito del nostro sistema istituzionale.
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