Mi sembra opportuno partire anzitutto dalle due obiezioni procedurali: quella del Parlamento delegittimato e quella del quesito unico proposto anche dalla maggioranza. La prima è piuttosto curiosa, non solo perché la sentenza 1/2014 della Corte costituzionale sulla legge elettorale lo confuta esplicitamente e preventivamente, ma perché la legittimazione è un po’ come essere incinti: o lo si è o non lo si è. Sarebbe curiosa una teoria per la quale un Parlamento sarebbe legittimo per alcune sue funzioni (a cominciare dall’eleggere un presidente e dare la fiducia a un governo) e illegittimo per altre. Mi sembra piuttosto vero il contrario, che cioè avendo iniziato una legislatura in cui le maggioranze diverse tra Camera e Senato ci avevano fatto precipitare in una crisi istituzionale (non si riusciva a costituire il governo né a eleggere un presidente, paralizzando anche il possibile scioglimento anticipato), sarebbe stato forse da considerare delegittimato un Parlamento che non avesse trovato una via per non riproporre per il futuro quel tipo di crisi, limitandosi all’attività ordinaria.
Anche la seconda obiezione mi sembra poco consistente e peraltro contraddittoria rispetto alla prima. Poco consistente perché le due innovazioni fondamentali, ossia il Senato che si regionalizza e che a causa di questo perde la fiducia, non sono tra loro logicamente separabili: i quesiti plurimi potrebbero produrre esiti tra loro contraddittori, come un Senato eletto indirettamente che darebbe ancora la fiducia. Quanto alla richiesta referendaria mi sfugge il motivo di questa disputa di opportunità politica (vista l’assenza di limiti giuridici) sul non poter presentare il quesito per chiedere agli elettori di votare «sì», ritenendo doveroso anche un passaggio popolare. Per chi è contrario il passaggio di fronte al corpo elettorale si giustifica chiaramente in senso oppositivo di garanzia, ma anche chi è favorevole se ritiene di dover beneficiare di un sostegno ulteriore, non ritenendo il proprio del tutto autosufficiente, rivela comunque una sensibilità nei confronti della fiducia nella sovranità popolare. Proprio chi pone dei dubbi di legittimità dovrebbe apprezzare il fatto che anche chi ha votato la riforma desideri un surplus di legittimazione.
Prima di entrare in valutazioni specifiche che rischiano di disperderci in mille rivoli, dobbiamo identificare le priorità (dal momento che non tutti i fini possono essere perseguiti contemporaneamente) e i parametri di giudizio.
La riforma risponde a due priorità: a) impedire, grazie al rapporto fiduciario limitato alla sola Camera – che avrebbe una chiara preminenza nella funzione legislativa –, il ritorno alla paralisi di sistema vista in ultimo nel 2013 in forma chiarissima (non a caso parte dal patto stipulato tra Pd e centrodestra dopo la paralisi sull’elezione del presidente), ma che già si era preannunciata nella parziale difformità di maggioranze tra Camera e Senato del 1994, del 1996 e del 2006; b) regionalizzare il Senato, privato di fiducia, puntando soprattutto per tale via – che supera la separatezza dei legislatori (e non tanto attra-verso il pur necessario lifting agli elenchi di competenza), come già tentato da Mortati e Conti alla Costituente – a ridurre i conflitti davanti alla Corte.
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