Nel suo recente saggio After Europe, il politologo Ivan Krastev si interroga sulla possibilità che quella che stiamo attraversando sia una fase di «disintegrazione» simile a quella vissuta dall’impero multietnico degli Asburgo o dall’Unione Sovietica. Nella sua acuta formulazione, «la fine […] è inevitabile e involontaria». Riferendosi al romanzo di Josef Roth, La Marcia di Radetzky, Krastev osserva che il crollo delle costruzioni politiche e culturali, quando avviene, è improvviso. La fine è il risultato naturale di carenze strutturali e una conseguenza involontaria di un processo di sonnambulismo, un momento speciale con una propria dinamica.

È legittimo chiedersi se non stiamo andando verso un’epoca di trasformazione dell’Europa e se – come scrisse Stefan Zweig – proprio perché contemporanei non siamo in grado di riconoscere nel momento storico in cui ci troviamo a vivere il collasso potenziale dei progetti d’integrazione europei. Nel pieno della Brexit, con la Polonia e l’Ungheria che mettono in discussione gli standard europei di legalità, con la crisi del bilancio italiano e le elezioni di fine maggio in cui i partiti cosiddetti populisti potrebbero a sorpresa conquistare il Parlamento europeo, non mancano di certo nell’Ue fattori di crisi e nessuno sembra avere un’idea concreta di come rivitalizzare l’Unione.

La grande erosione dell’idea europea ha lasciato segni profondi sul continente. Nella maggior parte degli Stati membri dell’Ue le forze politiche si sono divise – non da ultimo sulla scia della crisi dell’euro – rispetto all’atteggiamento da adottare nei confronti dell’Europa, con i partiti dei Paesi meridionali divenuti «populisti» per via dell’austerità e quelli settentrionali per porre fine al sistema dei trasferimenti. I socialdemocratici europei sono quasi completamente scomparsi, la sinistra europea è profondamente divisa in tutti gli Stati membri e il vuoto politico è stato riempito da partiti nazionalisti che si sono radunati in una sorta di «internazionale identitaria», da Geert Wilders a Marine Le Pen, dai polacchi del PiS agli ungheresi di Fidesz, dai «veri» finlandesi alla Fpö austriaca. Sono tutti partiti ben organizzati con un cospicuo consenso elettorale e anche, evidentemente, un adeguato numero di finanziatori.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 1/19, pp. 33-40, è acquistabile qui]