Bisogna dare atto a Paolo Pombeni di aver finalmente proposto, dalla parte del «sì» alla revisione costituzionale, un apprezzabile tentativo di argomentare nel merito, al qualeè così possibile replicare. Con due avvertenze preliminari, credo utili per restituire sobrietà alla discussione.
La prima, forse ovvia ma non troppo: la formazione e il ruolo del Senato sono indubbiamente punti importanti, ma la materia sottoposta a revisione è ben più ampia (sono addirittura 47 gli articoli sottoposti a revisione, così che la nostra architettura costituzionale viene di fatto riscritta). Pertanto, anche se il Senato disegnato dalla revisione fosse davvero quel che Pombeni crede che sia – ma che viceversa secondo me non è –, e cioè un ragionevole compromesso fra molte esigenze diverse che introduce in Costituzione una «Camera di riflessione» o «di garanzia», ciò non sarebbe di per sé solo sufficiente a giustificare l’approvazione dell’intera revisione.
La seconda: se finora c’è stata una parte che ha usato argomenti demagogici al limite del ridicolo – a partire dall’assicurare mirabolanti successi economici o grandi risparmi se si imporrà il «sì» profetando invece tragici destini per la nostra nazione in caso di vittoria del «no» – questa è sicuramente stata la parte favorevole alla revisione.
L’argomentazione che Pombeni considera una singolare «stranezza» va innanzitutto ricostruita correttamente. Si è detto, in effetti, che piuttosto di avere un Senato così disegnato sarebbe stato meglio abolirlo. Dalla parte del «no» non si è detto apoditticamente: aboliamo il Senato perché il monocameralismo è comunque superiore. Insomma, l’argomento, riportato nella sua interezza, è stato: meglio un monocameralismo ben congegnato che un bicameralismo tanto farraginoso e insulso. Tant’è vero che proposte che rispondessero all’esigenza, di per sé condivisibile, di una «camera di riflessione» non sono mancate. Gustavo Zagrebelsky, per esempio, ha reso pubblica una sua lettera indirizzata alla ministra Boschi il 4 maggio 2014 in cui, oltre alle osservazioni critiche sul testo della revisione, si avanzava la proposta di un Senato, composto da due eletti per ogni regione, da intendersi proprio come «Camera di ripensamento» (cfr. Loro diranno, noi diciamo, Laterza, 2016, p. 32).
Le ragioni per cui a mio giudizio si può definire il bicameralismo del ddl Boschi farraginoso e insulso si compendiano nel nuovo articolo 70 che regola la formazione delle leggi prevedendo ben dieci possibili diverse procedure, con il rischio concreto che quest’assurda complicazione sfoci in conflitti istituzionali non facili da ricomporre.
Vorrei tuttavia prendere al meglio il quadro, assai favorevole a dei rapporti tra le due Camere proposto da Pombeni. In sintesi, secondo Pombeni, il nuovo Senato assolverà magnificamente, e all’altezza dei tempi, il ruolo che, secondo il costituzionalismo classico, deve ricoprire un Senato in quanto espressione della volontà della nazione che affianca e corregge quella del popolo (chi ingenuamente pensasse che in una democrazia, sia pure indiretta, la volontà o sovranità del popolo e della nazione coincidono se ne faccia una ragione): «La tanto vituperata riforma Renzi-Boschi […] sottrae il Senato al pieno dominio delle dinamiche partitiche».
Ammettiamo per un momento che questa previsione si realizzi, e che quelli che appaiono evidenti punti di debolezza (il rinnovo continuo dei senatori in tempi diversi, il loro essere a mezzo servizio in quanto prima di tutto sindaci o consiglieri regionali, il non essere affatto chiaro in che modo avverrà la loro elezione indiretta, se tale sarà) siano in realtà punti di forza. Ammettiamo che così sia, che non ci siano effetti perversi – trascurando il fatto che la classe politica regionale cui la riforma del 2001 aveva dato maggiori poteri si sia mostrata di una pochezza imbarazzante. Restano, mi pare, tre obiezioni importanti. La prima riguarda le ragioni per cui le dinamiche partitiche non dovrebbero affettare il nuovo Senato. Come si raggrupperanno i nuovi senatori, se non secondo le stesse appartenenze politiche che strutturano la Camera dei deputati? Forse l’unico modo per realizzare un’assemblea al di fuori delle dinamiche partitiche è che i senatori rappresentino i territori e siano nominati dagli esecutivi, non scelti dai legislativi, e operino con vincolo di mandato, come avviene in Germania.
La seconda obiezione è ancora più semplice: se alla Camera dei deputati un partito dovesse ottenere la maggioranza assoluta, il Senato non avrà che una funzione decorativa, in quanto l’ultima e decisiva parola spetterà sempre e comunque ai deputati. Si potrebbe obiettare che per evitare questo problema basterà correggere la legge elettorale nota come «Italicum», la quale è stata concepita proprio per far sì che una lista abbia la maggioranza assoluta: mi auguro che l’esame della Consulta corregga questa stortura antidemocratica, ma rispetto alla funzione del Senato il difetto rimarrebbe comunque. Infatti, qualora un partito ottenesse alla Camera la maggioranza assoluta mediante una legge elettorale non distorsiva della rappresentanza, il Senato risulterebbe un legislatore superfluo. Si tratterebbe solo di avere un po’ di pazienza: una volta ascoltate con buona creanza le eventuali lamentazioni dei senatori, si potrà comunque procedere all’approvazione delle varie leggi. Chi sono allora i veri sostenitori di un sistema tendenzialmente monocamerale?
La terza obiezione si può esprimere riprendendo le parole di John Locke, da Bobbio considerato un antesignano del costituzionalismo. Nel riassumere i limiti di un potere legislativo «costituzionalizzato», Locke tra l’altro scrive: «il legislativo non deve né può trasferire ad altri il potere di legiferare, né affidarlo a mani diverse da quelle cui l’ha affidato il popolo» (Secondo trattato sul governo civile, §142). Locke ritiene inammissibile la delega della delega ricevuta dai rappresentati, al punto da considerare questa situazione una delle ragioni valide per azionare il diritto di resistenza. In conclusione, se conterà poco o nulla nel legiferare, allora il nuovo Senato potrà pure essere scelto indirettamente: se invece conterà qualcosa, l’elezione indiretta prefigura la realtà di un suo chiaro deficit democratico, non dissimile da quello che affligge dall’origine, contribuendo a renderla fragile, l’Unione europea.
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