Tra le prime dichiarazioni rilasciate da Enrico Letta c’è stato l’impegno del suo governo a non venir meno alla disciplina fiscale richiesta dalla partecipazione italiana all’Ue. Un impegno che diviene obbligo per l’Italia, Paese altamente indebitato, se si vuole che i titoli di debito pubblico continuino a rappresentare un investimento appetibile per i sottoscrittori. Sfortunatamente i contatti europei di Letta nulla lasciano vedere riguardo al se e al come Bruxelles intende gestire la crisi economica che affligge l’intera area euro e in particolare i Paesi meridionali.
Fino ad ora, mentre la Bce ha fatto del suo meglio per offrire sostegno ai Paesi non più in grado di ottenere finanziamenti dal mercato e così mantenere il funzionamento del sistema monetario europeo, il "governo europeo" di Bruxelles, al di là della simpatia dichiarata per l’idea di crescita, ha fatto assai poco per facilitare l’uscita dalla gravissima recessione e per fronteggiare una disoccupazione che ha pochi precedenti nell’ultimo mezzo secolo. Bruxelles continua a ripetere che bisogna azzerare il disavanzo (fiscal compact) e fare le riforme (realizzare vera concorrenza), dopo di che tutto si aggiusterà, riprenderà la crescita, aumenterà l’occupazione. Ma i continui sforzi per ridurre il disavanzo (per lo più attraverso maggiore prelievo fiscale) riducono la possibilità di spesa per consumi; la mancanza di prospettive per il futuro riduce le spese delle imprese per investimenti, con l’effetto di diminuire il prodotto nazionale e l’occupazione.
Per spezzare questa spirale depressiva la disciplina fiscale e le riforme non bastano. Bisogna, infatti, riuscire a generare nuova domanda: una domanda capace di accrescere produttività e competitività del sistema produttivo, perché l’economia italiana ha il duplice problema di dover riattivare la crescita e contemporaneamente accrescere la quota di esportazioni nel Pil. Bisogna promuovere investimenti capaci di dare un ritorno, per esempio investimenti in grado di restituire competitività ai porti italiani, investimenti per offrire servizi alle imprese italiane per esportare, investimenti adatti a richiamare turismo internazionale. In un clima recessivo, il mercato non provvede autonomamente a tali investimenti e l’intervento pubblico è necessario. Si tratta infatti di valutare il rendimento di medio-lungo periodo di interventi che i soggetti individuali tendono a rinviare a tempi migliori, perché non in grado di coordinarsi tra loro e così realizzare un miglioramento generalizzato delle aspettative.
Qui si ritiene stia il punto debole, lo Stato non possiede i mezzi per finanziare o concorrere a finanziare tali investimenti. Ma un buon investimento, se tale è veramente, rappresenta un capitale o un attivo patrimoniale. Se ci si indebita per realizzarlo, il debito è controbilanciato da un attivo patrimoniale e la posizione debitoria netta dell’investitore non viene compromessa. Questo è un punto di vitale importanza, non adeguatamente riconosciuto in sede europea. Il governo italiano, come del resto tutti i governi dei Paesi in recessione, dovrebbe adoperarsi con ogni mezzo per fare accogliere alla Commissione il principio secondo cui nel calcolo del rapporto debito/prodotto dei Paesi membri dell’euro il debito pubblico si calcoli al netto degli attivi finanziari che hanno un prezzo di mercato.
Quest’ultima specificazione (la sottrazione dal debito pubblico degli attivi finanziari che hanno un prezzo di mercato) è importante perché nel passato la prassi di confondere le acque, facendo passare spese a scopo di consumo improduttivo per spese di investimento, è stata spesso seguita, in Italia, in Germania e anche in altri Paesi. È colpa di questo malcostume se la sottrazione di cui parliamo (a volte indicata come golden rule per indicarne le virtù) non è entrata nelle regole contabili dell’euro. Di fronte alla proposta di calcolare il debito netto invece che il debito lordo o, detto altrimenti, il disavanzo al netto del valore degli investimenti produttivi, i nostri partner potrebbero richiedere alla Commissione europea di esprimersi sul carattere autenticamente produttivo degli investimenti che i governi intendono dedurre. Non vi sarebbe ragione di opporsi. Abbiamo parlato di "attivi finanziari che hanno un prezzo di mercato": in concreto intendiamo azioni e obbligazioni emesse da società quotate che abbiano buoni progetti. Poco importa che si tratti di imprese private al 100% oppure partecipate. L’importante è che i titoli emessi possano andare sul mercato finanziario e ricevere un prezzo. Se si adotta il criterio del prezzo di mercato il giudizio di un organo tecnico diventa superfluo, poiché la valutazione del rischio è implicita nel prezzo. La considerazione rilevante è che rinunciare a ottenere dal Consiglio europeo l’accoglimento del principio della sottrazione degli attivi finanziari significa sacrificare uno strumento utilissimo in una congiuntura difficile come l’attuale.
Vi è poi un’altra ragione, non meno importante, per impegnarsi al fine di ottenere la sottrazione degli attivi finanziari con prezzo di mercato dal debito pubblico: si tratta della possibilità di accrescere la patrimonializzazione delle banche che, gravate da un eccesso di crediti in sofferenza rispetto ai mezzi propri, si trovano oggi nell’impossibilità di utilizzare la liquidità offerta dalla Bce allo scopo di soddisfare la domanda di prestiti da parte delle imprese. Accade così che il sottoinsieme delle imprese italiane che esportano nonostante la crisi, quelle potenzialmente più vitali e meglio integrate nel contesto internazionale, non riescono a espandere la loro attività quanto il mercato consentirebbe loro. Naturalmente c’è anche il problema delle imprese che hanno bisogno urgente di ottenere credito. Le banche per parte loro non sono in grado di accrescere i mezzi propri attraverso nuove emissioni azionarie perché la rischiosità dei loro portafogli ha reso i loro titoli azionari poco appetibili. È dunque di fondamentale importanza trovare modalità di accrescimento dei mezzi propri adatte alla situazione. Queste modalità potrebbero consistere nella emissione, da parte delle banche, di obbligazioni convertibili in azioni a una scadenza poniamo di tre anni, acquistabili direttamente dal governo o anche da altri investitori. Giunte a scadenza queste obbligazioni, a discrezione delle banche emittenti, potrebbero essere rimborsate oppure convertite in azioni. Siamo nuovamente di fronte ad attivi finanziari che possiedono un prezzo di mercato. Se il governo acquista obbligazioni convertibili emesse dalle banche esso dovrebbe poter sottrarre il valore di mercato di tali obbligazioni dal debito pubblico.
Per mezzo di una sensata ridefinizione in sede europea del debito pubblico netto, ridefinizione niente affatto azzardata, ma basata sugli stessi criteri con i quali il merito di credito di ogni singolo cittadino viene giudicato, il governo potrebbe dunque attivare la leva dell’investimento produttivo, uscendo da una situazione in cui l’uso attivo della politica economica è praticamente precluso.
Un’ultima considerazione: il rapporto tra debito pubblico e prodotto nazionale dipende sia dal numeratore, sia dal denominatore. La decisione di operare soltanto sul numeratore, e pertanto sulla riduzione del disavanzo, produce l’effetto indesiderato ma inevitabile, di deprimere il denominatore (il prodotto nazionale) e di rendere l’obiettivo desiderato di contenimento del rapporto debito/prodotto più difficile da conseguire. Naturalmente anche se si opera sul denominatore possono prodursi effetti indesiderati. Se per esempio al fine di promuovere la crescita del prodotto nazionale si fa spesa improduttiva in deficit, il numeratore del nostro rapporto può crescere, contro i nostri desideri. Ma se si considera che le uscite pubbliche per investimenti produttivi non pregiudicano la solvibilità finanziaria del governo, dato che corrispondono ad attività finanziarie quotate sul mercato, diviene ragionevole guardare al debito netto e riconoscere tali uscite come strumento fondamentale per sostenere la crescita del prodotto nazionale nel rispetto della disciplina finanziaria.
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