Milano è sempre stata una città d’avanguardia, nel bene e nel male. Negli anni Sessanta e Settanta fu punto di riferimento per il mondo della cultura europea ed esempio del ruolo trainante che la ricerca può assumere nello sviluppo e nell’identità di un’area. Dinamica, interdisciplinare e interconnessa, riconosciuto laboratorio di sperimentazione culturale e artistica, ne traeva alimento in termini di imprenditorialità creativa, moda, design, editoria: gli ambiti per i quali ha guadagnato centralità nel mondo.
Poi la situazione è cambiata. La città ha rinunciato a ricerca e sperimentazione, ha vissuto di rendita, pochi investimenti sono stati fatti per valorizzare le “eccellenze” raggiunte; per esempio, malgrado i numerosi annunci, non è stata capace di dotarsi di adeguati musei di arte contemporanea, della moda e del design. Ma non esiste rendita che non si esaurisca. Milano è così andata incontro a un impoverimento prima strisciante, poi evidente; il mortificante declassamento della città da parte di Standard & Poor’s è del 27 settembre.
La desertificazione non riguarda solo la cultura né solo Milano, certo; interessa un Paese la cui politica culturale è consistita, negli ultimi decenni, nell’azzerare la cultura. E insieme al tessuto culturale, anche il tessuto sociale si è andato disarticolando.
Sta di fatto che a Milano, negli ultimi anni, gli eventi istituzionali nel campo della cultura sono risultati disparati, scoordinati, intermittenti, più legati a nomi facilmente veicolabili dal punto di vista mediatico che a rilevanza e a contenuto; sintomo di confusione tra cultura e intrattenimento/consumo culturale. Nessuna importanza è stata attribuita alla creazione di poli culturali dotati di identità e autonomia. Anzi, gli spazi espositivi muniti di struttura organizzativa propria ne sono stati esautorati; è il caso del PAC. Privi di direzione e di curatela, ridotti a meri contenitori, gli spazi istituzionali ospitano eventi slegati l’uno dall’altro, scelti arbitrariamente o semplicemente accettati tra il novero delle proposte pervenute, sulla base di spinte di tipo privatistico o di considerazioni esclusivamente economiche, con indifferenza per contenuto, coerenza e continuità. E’ il caso di Palazzo Reale, Rotonda della Besana, Palazzo della Ragione, solo per citarne qualcuno; ma anche della Triennale: esempio di successo in termini di numero di eventi proposti e di biglietti venduti, ma anche di frammentazione della proposta.
L’istanza per un museo di arte contemporanea che funga da fulcro e centro propulsore di energie per l’attività artistica è instancabilmente portata all’attenzione degli amministratori pubblici. Risposte sono state avanzate in termini di contenitore, non in termini di significato, di programma, di collezione; e comunque sinora nulla si è concretizzato.
Mancano una visione progettuale d’insieme e non immediatamente strumentale e l’idea che l’efficacia di una politica culturale si misuri in termini di crescita sociale, piuttosto che di sbigliettamento; manca l’idea stessa di una politica culturale propriamente detta.
Ne risulta che gli sforzi di coloro che generano arte e cultura, pure tenacemente attivi in città, non vengono registrati, riconosciuti né supportati dalle istituzioni preposte.
In realtà, oltre a un numero di figure di valore attive a diverso livello nell’amministrazione pubblica, esistono specialisti dotati di altissime competenze, nonché ottime gallerie e spazi non profit di livello; figure e spazi che isolati, quasi privi di supporto e di riconoscimento, con mezzi propri e tra enormi difficoltà, si muovono su un orizzonte di attività e di relazioni assolutamente internazionale.
Molti professionisti negli ultimi anni hanno trovato possibilità di azione soprattutto in altre città o in altri Paesi; gli spazi, affetti da demotivazione e scoraggiamento cronici, arrancano per mancanza di supporto. Emblematica la vicenda della Fondazione Pomodoro, che, decaduto tra l’altro il sostegno fondamentale di UniCredit, main partner sin dagli esordi, ha chiuso nei giorni scorsi lo spazio magnifico inaugurato sette anni fa.
Questo sino a qui. Oggi si auspica un cambio di passo. L’assessore Boeri, da poco in carica e responsabile per Cultura, Moda, Design ed Expo, ha la possibilità di mettere in campo un agire organico, propositivo e coordinato, che renda dignità, autonomia e identità alle strutture permanenti della città: unico possibile percorso per metterle in condizione di dialogare con il mondo alla pari, ma anche di operare in profondità sul tessuto sociale e sul senso di appartenenza della città. La penuria economica del momento non aiuta. Richiederà di essere compensata con un di più di progettualità. Per ora Boeri ha adottato un atteggiamento di ascolto. La città gli dà fiducia e attende. Di nuovo Milano potrebbe fungere da paradigma per il Paese.
Riproduzione riservata