Una recente circolare di aggiornamento del ministero della Salute ha esteso a nove settimane di gestazione l’uso della RU486 per l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) e ha eliminato la – incomprensibile – prescrizione di ricovero di tre giorni in ospedale per l'esecuzione della procedura medica (basata, cioè, su trattamento farmacologico anziché chirurgico). Questa decisione sana finalmente quello che rappresentava un grave insulto alla medicina basata sulle prove scientifiche e riabilita ministero, Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e Consiglio superiore di sanità come enti obbligati a prendere decisioni, formulare autorizzazioni e fornire pareri sulla base delle indicazioni che solo la ricerca scientifica fornisce. L’efficacia e la sicurezza dell’aborto medico, infatti, sono state ampiamente confermate da trent’anni di applicazione nei paesi industrializzati e, come descritto, per gli aborti precoci nelle linee guida elaborate dall’Oms e da altre agenzie internazionali.

Nell’ultima relazione presentata dal ministro al Parlamento nel 2020, relativa ai dati definitivi del 2018, risulta che il ricorso all’aborto medico ha riguardato il 21% delle interruzioni volontarie di gravidanza, ma poco meno del 60% di quelle effettuate entro le sette settimane di gestazione e l’esperienza italiana non è discorde da quella degli altri Paesi per quanto attiene a efficacia e sicurezza. Tenendo conto che poco meno del 70% delle interruzioni sono state effettuate entro la nona settimana, dobbiamo attenderci un aumento più che raddoppiato delle Ivg non chirurgiche, soprattutto se si darà seguito alle nuove disposizioni ministeriali, che indicano la possibilità di effettuare l’aborto medico in ambulatorio o in consultorio.

Il ricorso all’aborto medico non è tanto una scelta della donna, quanto piuttosto una preferenza degli operatori e dei serviziLa relazione del ministro riferisce anche di una notevole varietà tra regioni nel ricorso alla Ivg medica (dal 2% del Molise a poco meno del 90% del Piemonte) e variazioni altrettanto importanti si registrano tra i vari servizi ostetrico-ginecologici, in particolare tra gli istituti di cura pubblici e cliniche convenzionate che applicano la legge 194/78 anche all'interno della stessa Regione. Questa variabilità sta a indicare che il ricorso all’aborto medico non sia tanto una scelta della donna, quanto piuttosto una preferenza degli operatori e dei servizi. Questo evidenzia la pressante necessità di aggiornamento professionale per far sì che ovunque e in modo omogeneo si operi sulla base delle prove scientifiche, offrendo alle donne piena possibilità di scelta, com’è obbligatorio negli interventi di sanità pubblica. Oltre all’aggiornamento professionale è auspicabile che, come esplicitamente indicato dalla legge, a livello regionale si definiscano strategie operative per assicurare il servizio in modo omogeneo sul territorio, garantendo una piena integrazione sia orizzontale che verticale. Anche da questo punto di vista, il riconoscimento della possibilità di effettuare l’aborto medico anche nei consultori è straordinariamente importante, in quanto tali servizi sono istituzionalmente dedicati per la promozione della salute e l’attività di counselling. La stessa legge 194/78 fa esplicito riferimento a questi in via prioritaria.

In effetti, la più ragionevole spiegazione della straordinaria e costante diminuzione del ricorso all’aborto in Italia (da 17,3 Ivg ogni 1000 donne in età feconda del 1982 al 6 ogni 1.000 donne del 2018) è stata la disponibilità e la qualità dell’informazione per la crescita della consapevolezza riguardo il controllo della fecondità, essendo il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza un’ultima ratio e non una scelta d’elezione. Indagini epidemiologiche, population based, condotte dall’Istituto Superiore di Sanità negli ultimi vent’anni riguardo il percorso nascita confermano che proprio il Consultorio familiare e, in particolare, le ostetriche, forniscono le informazioni più soddisfacenti, a giudizio delle donne intervistate (come riportano alcune ricerche, ad es. Epicentro e Istisan 12/39).

La più ragionevole spiegazione della diminuzione del ricorso all’aborto in Italia è la disponibilità e la qualità dell’informazione per la consapevolezza riguardo il controllo della feconditàPertanto, sarebbe una scelta strategica vincente privilegiare il consultorio, almeno uno per distretto, come sede di prenotazione per l’intervento: in un distretto di 100 mila abitanti, con circa 25 mila donne in età feconda, ci dobbiamo infatti attendere un numero di Ivg per anno variabile tra le 120 e le 200, dati gli attuali tassi di abortività che variano da poco meno del 5/1000 a poco meno dell’8/1000. Quindi, in media da 5 a 8 Ivg ogni 15 giorni, almeno metà delle quali effettuabili con procedura farmacologica.

Inoltre, dalla letteratura scientifica risulta che le ostetriche garantiscono altrettanta efficacia e sicurezza nella gestione dell’aborto farmacologico rispetto ai ginecologi, pertanto per quanto detto sopra l’ostetrica consultoriale è certamente la figura professionale da privilegiare, sia per il counselling, sia per l’intervento farmacologico – se così sceglie la donna dopo una esauriente informazione.

Che il ricorso all’aborto non sia una scelta d’elezione, bensì un’ultima ratio, deve essere sempre tenuto presente quando si prende in considerazione la preoccupazione espressa da chi si oppone alla legalizzazione sostenendo che la decisione ministeriale di eliminare le precedenti restrizioni (prima non si poteva prescrivere la RU486 oltre la settima settimana gestazionale e si richiedeva, come detto, il ricovero in ospedale per tre giorni) favorisca il ricorso all’aborto come metodo privilegiato per evitare gravidanze indesiderate. Si tratta di una tesi tanto ricorrente (si parlava di questo rischio già negli anni Settanta nel dibattito sulla legalizzazione dell'aborto e anche successivamente, in quello sull’introduzione del metodo farmacologico) quanto inconsistente, come dimostra non solo la riduzione nel tasso di abortività nei decenni precedenti, ma anche le stime di una ulteriore riduzione nei prossimi anni.

Per inciso, la decisione di liberalizzare l’uso della RU486 alla luce delle consolidate prove scientifiche e della più che trentennale esperienza internazionale ridurrà ai minimi termini il peso dell’obiezione di coscienza nell’applicazione della legge e dovrebbe rendere ancora più semplice la programmazione regionale per garantirne l’applicazione in modo omogeneo sul territorio, riducendo spostamenti e tempi di attesa, che sono vere e proprie vessazioni per le donne. Oltretutto, nell’attuale temperie pandemica, è quanto mai opportuno ridurre il più possibile l’afflusso e la persistenza in ospedale senza specifiche necessità.

Un’ultima riflessione di carattere generale merita di essere posta all’attenzione. Le relazioni di potere trovano fondamento nel controllo dei corpi sia attraverso gli stereotipi di genere, sia attraverso interventi invasivi non necessari: nella vicenda della RU486 questo tipo di controllo si riduce molto. Dobbiamo allora riconoscere la grande saggezza della legge 194/78 che già a suo tempo aveva prefigurato nuove modalità operative (art. 15) emergenti dal progresso delle conoscenze. Fare affidamento sull’autodeterminazione delle donne e sul sostegno dei servizi consultoriali e, in particolare, delle ostetriche sarà ancora, oggi come allora, la carta vincente.