Che cosa accade se in una città, per dare un nome alle realtà del territorio urbano, gli abitanti parlano sempre più spesso di zone e sempre meno di quartieri? Agli inizi del Novecento la toponomastica istituzionale e amministrativa faceva ancora ampiamente ricorso a unità spaziali dal forte colore popolare, quali rione, quartiere o sestiere. Recentemente l’organizzazione funzionale e logistica dell’urbano sta imponendo una marcata suddivisione in «zone» anche per le città italiane. Eredità e prodotto dei processi di gentrification, la zona urbana ha i tratti dell’unità spaziale tendenzialmente omogenea e impersonale. Di per sé la zona non pretende di avere una storia, ma si accontenta di organizzare le funzioni della vita presente. In tal senso si ricorre comunemente a espressioni di uso quotidiano quali zone del divertimento, zone dei negozi etnici o alla denominazione di zona turistica per indicare il centro storico di un’antica città.

I processi di gentrification, così come li abbiamo conosciuti nelle trasformazioni urbanistiche italiane degli ultimi decenni, hanno prodotto un uso indiscriminato di zone monofunzionali e un’evidente segmentazione del continuum urbano. L’unità di riferimento, per quanto riguarda l’identificazione del vissuto quotidiano, non è più il quartiere storicamente abitato, ma le zone abitualmente frequentate. La zona eletta o praticata dal singolo individuo diventa un potente marcatore sociale e un elemento di identificazione talvolta più significativo della residenza o del domicilio.I processi di gentrification, così come li abbiamo conosciuti nelle trasformazioni urbanistiche italiane degli ultimi decenni, hanno prodotto un uso indiscriminato di zone monofunzionali e un’evidente segmentazione del continuum urbano

Sempre più chiaramente la città si sta trasformando in uno spazio da organizzare per favorire l’estrazione di risorse differenziate. L’urbano diventa pertanto l’ambito di investimento più aggiornato e vantaggioso per le operazioni del capitalismo logistico ed estrattivo. Da un lato la logistica si attesta quale razionalità non esclusivamente organizzatrice, ma produttrice di spazio. Dall’altro l’estrattivismo manifesta l’atteggiamento piratesco del biopotere finanziario in grado di succhiare ricchezze materiali e immateriali dai territori urbani, senza reali disponibilità e progetti di investimento economico. La questione non è verificare l’esistenza di un capitalismo urbano, ma indagare l’urbano quale privilegiato territorio di sperimentazione da parte dei nuovi poteri amministrativi, economici e finanziari.

Lo spirito estrattivo del capitalismo finanziario si accanisce sulle antiche debolezze dei luoghi istituzionali e degli ambienti sociali. La città è il tessuto più permeabile e sensibile alle manovre della razionalità estrattiva. Anche istituzioni tipicamente urbane quali le università hanno affinato procedure di estrazione indiscriminata di saperi e risorse intellettuali. Si può parlare di estrazione accademica della conoscenza per tutti quei casi in cui lo sforzo (conatus) intellettuale dei subordinati (studenti, ricercatori, docenti precari) viene catturato ossia estratto e capitalizzato da una struttura autoriproduttiva, sempre più incapace di un riconoscimento adeguatamente remunerato sia del lavoro individuale che dell’impresa collettiva. L’estrattivismo, quale tendenza alla cattura di beni materiali, immateriali e cooperativi, non fa altro che ripresentare, sotto una veste apparentemente rinnovata, l’essenza della logica padronale. Il padrone, osserva Frédéric Lordon, «è questa capacità di predazione, della quale vedremo manifestazioni in ben altri ambiti da quelli dello sfruttamento capitalistico che è oggi la sua principale espressione: il dirigente dell’Ong che si appropria del risultato dell’attività dei suoi attivisti; il barone universitario dell’attività dei suoi assistenti; l’artista dei suoi aiutanti, e questo ben al di fuori dell’impresa capitalistica, alla ricerca di oggetti che non hanno niente a che vedere con il profitto monetario».

Il padrone è in grado di esercitare autorità sul servo non tanto in virtù di un diritto proprietario sulla vita di questo, quanto in funzione della capacità di estrarre e catturare forze vitali indipendenti rispetto alla sua azione, predare cioè beni e risorse preesistenti rispetto alle forme di investimento economico o affettivo. L’estrattore (di risorse umane, finanziarie o pulsionali) è un padrone capace di intercettare e prendere ricchezze prima ancora che queste possano essere messe in comune, prima ancora che possano entrare nel gioco (economico o domestico) dello scambio e del mutuo riconoscimento. L’estrattore è interessato a suggere le primizie del lavoro comune, condizionando in questo modo l’insorgere delle pratiche e delle imprese collaborative.           

La logistica, d’altro canto, può essere considerata una particolare forma organizzativa della realtà, finalizzata a produrre ambienti e soggettività che hanno la forma di zone. La razionalità logistica pertanto non si limita a trasformare i luoghi dell’abitare o l’organizzazione dei servizi, ma produce autentici presidi spaziali per favorire la circolazione di merci e persone. La logistica non può fare a meno di zone-deposito, luoghi in cui le merci vengono riunite e stoccate per raggiungere nel minor tempo possibile il maggior numero di individui, ottimizzando in questo modo risorse e capitali. Presupposto e scopo della razionalità logistica non è la garanzia della mobilità o dei flussi, ma il controllo delle aree di smistamento, ossia la creazione di zone franche, l’istituzione di luoghi di eccezionalità giuridica o amministrativa (free-trade zone).

Senza neanche accorgercene stiamo passando dalla città dei flussi alla città delle zone speciali. Questo significa che, dietro la superficie di un sistema urbano che garantisce mobilità e connessioni sempre più efficienti, si nasconde una nuova geografia degli spazi di eccezione: zone della produzione e del consumo in cui è all’opera una progressiva sospensione delle garanzie lavorative, salariali o previdenziali. Sotto la spinta della razionalità logistica, la città parcellizzata viene divisa in zone, diventa cioè un’aggregazione di segmenti, un accumulo di stock residenziali, un «campo molare» al cui interno si accalcano rappresentazioni indipendenti, incapaci di alleanze dal basso o di un’autentica «progettazione minore».Presupposto e scopo della razionalità logistica non è la garanzia della mobilità o dei flussi, ma il controllo delle aree di smistamento ossia la creazione di zone franche, l’istituzione di luoghi di eccezionalità giuridica o amministrativa (free-trade zone)

L’istituzione di zone speciali, monofunzionali e indipendenti non si limita a parcellizzare la vita, ma sopprime la vita in quanto esercizio di risonanza tra i centri. Gli spazi speciali della logistica spezzano le vibrazioni urbane che sono in grado di alimentare incontri, unioni e federazioni all’interno di una grande città. Immaginare l’urbano, rivendicare oggi il diritto alla città significa sottrarsi sia alla tentazione del segmento (il comune inteso come sovrapposizione incidentale di settori limitati e parziali della vita: stiamo insieme limitatamente alla quantità di cose che vogliamo mettere insieme), sia alla tentazione del flusso (il comune come senso fatalistico della simultaneità: stiamo insieme solo perché contemporanei gli uni degli altri).

La critica della razionalità logistica è il risvolto complementare del lavoro politico e sociale intorno alle nuove forme del comune. La rinnovata centralità dell’urbano e delle istituzioni comunali non può fare a meno delle pratiche consolidate o incipienti che stanno già ricomponendo il lessico sociale del comune e la geografia delle nuove comunità urbane. Il comune diventa pertanto l’avamposto di numerose forme di resistenza collettiva contro l’avanzata della razionalità gestionale. Stefano Harney, coautore con Fred Moten di Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero (trad. it. Tamu, 2022), afferma che è impossibile pensare nei termini di una «gestione» del comune. Sembra infatti che l’azione stessa di «gestire» (movenza trasversale sia alla razionalità logistica che alle retoriche della governance) sia, per il soggetto che la compie, una dichiarazione di sottrazione rispetto ai processi autenticamente coinvolgenti e accomunanti. Chi pretende di gestire l’urbano nega la natura di questo in quanto attività condivisa e prolungata di commoning. Scrive infatti Harney che pare che «la prima cosa che fa la gestione sia immaginare che quello che è informale o che sta già succedendo richieda qualche azione che possa organizzarlo, piuttosto che prendervi parte».