Nel pieno della prima ondata di pandemia, il 25 aprile dello scorso anno è stato insolito, solitario e anche un po' triste. C'era chi portava un fiore a una lapide, chi cantava Bella ciao dai balconi, chi seguiva una diretta streaming addormentandosi però dopo pranzo e chi guardava un film sulla Resistenza. Nessuno, però, poteva percorrere le vie e riempire le piazze; nessuno respirava a pieni polmoni l'aria della festa d'aprile.
La giornata si era conclusa pensando che l’assenza delle tradizionali manifestazioni e celebrazioni costituisse una parentesi necessaria all’interno del frame dell’attesa in cui stavamo vivendo. Qualche mese, ci ripetevamo, e si sarebbe trovata una soluzione – anche se, a dire la verità, spesso i riferimenti temporali si facevano più incerti. Tuttavia, quella sera di un anno fa, qualcuno si convinceva che quella paura di perdere qualcosa di importante fosse funzionale a una festa della Liberazione più sentita in futuro e che forse addirittura quella paura avrebbe fatto bene al sentimento di una «piazza» che privata della sua festa più bella ne avrebbe ricompreso il senso, dandole nuova linfa.
Le speranze di quella sera presto si sono dovute ricredere e questo 25 aprile sembra coglierci di nuovo di sorpresa, sospesi tra mezze libertà, incertezze di fondo, una campagna vaccinale che procede a singhiozzo e la litania dei decessi che continua a fare da sottofondo alle nostre giornate, a cui forse ci siamo sempre più abituati.
Se quel fermo immagine del 2020 era un necessario atto civico, come interpretare quello di oggi? Come guardare alle piazze virtuali di una festa domenicale che rischia di attraversare sbiadita il dibattito pubblico?
Tuttavia, in un anno pandemico in cui la forbice delle diseguaglianze ha continuato ad allargarsi in maniera considerevole, le piazze sono state tutt’altro che silenziose. Al contrario, hanno assistito a numerose rivendicazioni: dai rider ai lavoratori di Amazon, da Black Lives Matter ai Bauli in Piazza, dagli studenti sulla Dad alle proteste dei ristoratori, per rimanere solo su scala nazionale, ma altrettante sono state quelle locali.
Il conflitto sociale in epoca pandemica sembra configurarsi nella cifra dell’urgenza e della necessità più che in altri momenti e a questo si somma la frammentarietà di proteste divise per settori produttivi, professionali e istanze territoriali a discapito di una mobilitazione generale.
Ci si rende conto del vuoto e dell’assenza della festa della Liberazione nella sua dimensione rituale che si struttura attraverso la mobilitazione del simbolico che viene agito nella piazza e, più in generale, nella pratica diretta e collettiva dello spazio. Un rito di passaggio annuale della militanza, della coscienza civica e della democrazia in cui vediamo e siamo visti, ci incontriamo per caso, ci riconosciamo e ci contiamo.
La forza di quella piazza e il rischio della sua assenza si collocano proprio nel suo ampio raggio, attraversato da divisioni, talvolta laceranti, in cui ogni anno si ricostituisce un filo che lega tali diversità nell’alveo dell’antifascismo, nel modo in cui la lotta partigiana era trasversale a diverse anime, segnando una linea di demarcazione verso chi a quella piazza non appartiene.
Come ricorda Fabio Dei (Riti e simboli del 25 aprile, Meltemi, 2004) il 25 aprile si delinea come «celebrazione composita» in cui si intrecciano «generi diversi, molteplici linguaggi simbolici e prototipi cerimoniali», in cui la «sintassi» del rituale coinvolge il raduno, la sfilata, la folla, i discorsi istituzionali, i comizi, l’ostensione dei simboli. Si delinea, così, una molteplicità in cui convergono la dimensione popolare, quella civile e la ritualità religiosa.
Se, tuttavia, nella sfera religiosa la garanzia del simbolico è esplicita, nella piazza civile ciò rivela una maggiore complessità: sono i testimoni, le organizzazioni, la Storia, quella storia e chiunque vi si riconosca, segnando un interrogativo importante rispetto al futuro della festa. Dietro alla produzione di riti e simboli molteplici legati al 25 aprile c’è il fatto che ivi la territorialità conta e assume un ruolo specifico. Diversi luoghi danno origine a diverse esperienze della stessa festa.
Ciò si lega da una parte al ruolo che le amministrazioni locali (e i relativi destini politici) hanno avuto storicamente nell’organizzazione e conseguentemente nella codifica del rituale. Dall’altra fa riferimento alla specifica posizione di rilievo che, soprattutto nel Centro Nord, i territori locali hanno avuto nella lotta partigiana. Ciò ha delineato un paesaggio significativo e simbolicamente evocativo dal punto di vista della memoria e dell’appartenenza. Sono valli, montagne («la culla del partigianato, base fondamentale, l’ambiente di sviluppo e di consolidamento» D.L. Bianco, 1957, p. 10), colline, passi, villaggi, paesi e ancora caserme, palazzi, alberghi, che abitano e conservano in maniera più o meno silenziosa il terrore, il lutto e «la stagione della speranza».
Riprodurre nella piattaforma virtuale l’irriducibilità territoriale chiave della lotta partigiana e del 25 aprile così come il pellegrinaggio laico nei luoghi della memoria risulta complesso
Sebbene le enormi possibilità legate al digitale, come la raccolta e la diffusione di materiali, costi organizzativi minori e un pubblico potenzialmente molto più vasto, la possibilità di un 25 aprile completamente virtuale suscita alcune perplessità.
Alla piazza pubblica si contrappone, infatti, un’infrastruttura digitale privata che non è di tutti: al tema giurisdizionale ed economico si associano le componenti sociali, chi può e sa accedere e chi no, chi può permetterselo e chi no, chi ne comprende le sintassi, i linguaggi e chi no.
Inoltre, a un’esperienza collettiva situata in uno spazio esplicito, si contrappone un momento individuale che, al di là del potere aggregante che possono avere gli hashtag di Twitter o le storie di Instagram, rischia da una parte di rimanere incastrato nella tanto dibattuta «bolla» e dall’altra di non andare comunque a sostituire una compresenza che è in primis compresenza di corpi.
Il terzo aspetto riguarda la capacità di frequentare la piazza online da parte delle organizzazioni tradizionali del 25 aprile e più in generale di quello che resta dei corpi intermedi: si va a misurare una distanza considerevole tra gli attori dei social (influencer ecc) e quelli che potremmo chiamare attori fuori dai social nella capacità di coinvolgimento e nella mobilitazione di numeri. La capacità mediatica propria delle associazioni «garanti» del 25 aprile è tale da riprodurre online la capacità della piazza reale?
Per la festa del 25 aprile con il 2021 potrebbe aprirsi, dunque, una fase di svolta dettata da più fattori: il primo, ampiamente discusso, di carattere generazionale con la progressiva e semi definitiva scomparsa dei testimoni del vissuto. In seconda istanza, in tale contesto, la posta in gioco riguarda i livelli istituzionali e organizzativi: innanzitutto, quale ruolo giocano oggi i governi e la politica nazionale davanti alla festa della Liberazione, conditio sine qua non della Costituzione che regola la democrazia in cui ci troviamo.
Il secondo livello riguarda le organizzazioni tradizionalmente implicate nella festa della Liberazione e si pone il dilemma di quali siano le capacità e i modi di mantenere, organizzare e trainare il «simbolico» della piazza del 25 aprile, in un contesto che non è cambiato esclusivamente sul piano comunicativo e narrativo ma che su tali livelli conosce oggi inedite sfide.
Il rischio che si profila all’orizzonte è di natura complessa: è urgente ritornare in piazza perché il 25 aprile depauperato della sua festa rischia di indebolirne ulteriormente la portata, la forza e l’efficacia civile
Risulta lecito chiedersi, inoltre, se una festa della Liberazione che passa in sordina e si fa quasi trasparente possa costituire un assist a sovranisti e alle anime della destra che non hanno mai amato questa festa, secondo quella distinzione evidenziata da Norberto Bobbio, tra la «destra che disconosce» e la «sinistra che riconosce» il valore storico della Resistenza.
È bene allora considerare quotidianamente la festa d’aprile, oltre che nei termini della commemorazione anche in quelli della lotta alle forme di fascismo sottile o apertamente sostenuto da organizzazioni che da parte loro ampiamente muovono la piazza. «Forse, dovremo ancora vederne delle belle…», scriveva al riguardo Dante Livio Bianco a Nuto Revelli in una lettera del 1946 (citata in Guerra Partigiana, Einaudi, 1954), in un’Italia che appena liberata dal fascismo ne sentiva riecheggiare l’eco presente e allora ricordava che «dobbiamo stare molto attenti, ogni giorno è una posizione che si perde… Dobbiamo stare molto attenti e tener molto la testa sul collo: senza isterismi polemici, senza eccessivi scoramenti, senza ripicchi e puntigli».
Immaginarsi un ritorno in piazza oggi risulta comunque faticoso, così com’è faticoso immaginarsi un ritorno alla normalità, esercizio che a volte conviene non fare per non alimentare illusioni o nostalgie, procedendo per interstizi. Pensando al 25 aprile di un domani si alternano due scenari: quello della circospezione, del muoversi lenti in mezzo alla gente ritrovata e dall’altra un’immagine a lungo codificata dalla letteratura della Resistenza di una città che si risveglia dopo la Liberazione piena di luce e di gioia. Ed è quest’ultimo, chiaramente, l’auspicio.
Così come nell’alveo di qualcosa di nuovo, questa rivista nasce settant’anni fa, pochi anni dopo la Liberazione, a partire da un gruppo di giovani, la generazione dopo quella della Resistenza, di cui ne abbracciano i principi democratici e costituzionali, senza tralasciarne mai la complessità. Nasce con l’obiettivo primario, «il nostro primo carattere istintivo» di imparare, riuscendo poi nell’impresa durata finora di accompagnare molti nella comprensione civile delle cose e della politica «intesa come parlare e vivere insieme secondo quel metodo di libertà che ammette [...] una sempre rinnovata e più ricca concordia discors» («il Mulino», n. 1/1951).
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