La situazione politica italiana lascia poche speranze a chi crede che, nelle attuali democrazie, agli elettori debbano essere prospettate alternative semplici e chiare. Una persona simbolo – un candidato presidente del Consiglio – è solo uno dei modi in cui queste alternative possono essere rappresentate, in un contesto i cui i partiti non sono più in grado di svolgere il ruolo che hanno svolto in passato. Ma non l’unico. È però certo che in Italia – in un sistema elettorale proporzionale, con coalizioni mercanteggiate in Parlamento da partiti numerosi ed eterogenei dopo che si sono svolte le elezioni – è praticamente impossibile presentare agli elettori, prima delle elezioni, alternative di governo chiare, sulla base delle quali essi possano decidere.
La sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionali larghe parti dell’Italicum sembra però condurci, come risultato inevitabile, proprio a questa situazione. Tuttavia essa lascia aperto uno spiraglio per coloro che temono gli effetti di ingovernabilità di un sistema proporzionale: sopravvive infatti alla bocciatura la regola che la lista elettorale – e sottolineo lista e non partito – la quale abbia ottenuto più del 40% dei voti ottenga un numero di seggi che, alla Camera, le assicura la maggioranza. La possibilità di governare dipende poi dal fatto che al Senato si formi, anche con una diversa legge elettorale, una maggioranza analoga.
Una lista elettorale è diversa da una coalizione. Come in una coalizione, essa è composta da partiti che non abbandonano la loro identità. Ma, a differenza di una coalizione, essi devono mettersi d’accordo, oltre che sugli aspetti centrali del programma e sul nome del presidente del Consiglio, su quanti e quali candidati presentare per ciascun partito: un negoziato assai difficile, in specie se il raggiungimento della quota del 40%, e quindi del premio, si presenta incerto. È però dal successo della lista che dipende la conservazione di un sistema elettorale maggioritario e la possibilità di mandare agli elettori un messaggio chiaro. Faccio un esempio – da prendere più che altro come esercizio di fantapolitica che come reale possibilità. Ammettiamo che si presenti una ipotetica lista «Democratici e Riformisti europei», promossa dal Partito democratico, dai partiti centristi, da partiti e movimenti di sinistra, e – probabilmente sarebbe necessario – da Forza Italia. Il messaggio sarebbe chiarissimo: è la lista di tutti coloro che, per quanto critici del modo in cui l’Ue è attualmente governata, non vogliono abbandonare questa costante della politica nazionale, l’adesione all’Unione europea. L’obiettivo del 40% non sarebbe irraggiungibile e, se raggiunto e se la maggioranza al Senato fosse omogenea, potrebbe sostenere un governo con un chiaro indirizzo politico.
Un chiaro indirizzo? Ma non si tratterebbe in sostanza di un governo di coalizione, e tra partiti che sui più importanti problemi politici hanno orientamenti assai diversi? La distinzione tra destra e sinistra non è affatto annullata da un comune proposito di evitare una spaccatura in Europa e con l’Europa. Che l’Unione sia il più evidente problema di governabilità che oggi ci affligge, e che un atteggiamento comune nei suoi confronti ci costringerebbe a perseguire politiche non troppo distanti da quelle prevalenti nei principali Paesi europei, non elimina i contrasti che si creerebbero in materia di giustizia, di scuola, di Welfare e sui tanti temi sui quali i partiti coinvolti nella lista comune si sono sempre scontrati. E poi, al di là del merito dei problemi, quale sarebbe oggi l’interesse dei partiti che, sulla base del loro europeismo, potrebbero essere coinvolti nell’esperimento? Il possibile raggiungimento del 40% e del premio verrebbe probabilmente a dipendere dal coinvolgimento di Berlusconi e questi ha fatto chiaramente capire – anche in una lunga intervista al «Foglio» – di avere altri propositi. E ancora, da un punto di vista istituzionale, è probabile che si formi al Senato una maggioranza omogenea a quella della Camera? Le simulazioni di D’Alimonte («Il Sole – 24 Ore») non confortano questa ipotesi. Il tutto poi comporta negoziazioni complesse e faticose: come si concilia questo con la fretta di Renzi di andare al voto?
Se il tentativo fallisse – ormai i gufi sono stati sdoganati e mi posso permettere un ragionevole pessimismo – e si andasse ugualmente al voto, a giugno ricadremmo in un sistema puramente proporzionale e sarebbe assai difficile la formazione di un governo. Il problema è che l’Italia non è la Spagna, che ha potuto permettersi tre elezioni di fila prima di trovare una soluzione: la Spagna cresce al 2-3% e dispone di una amministrazione pubblica più efficace della nostra. Noi ci troveremmo in pieno marasma politico, con una crescita striminzita e un debito pubblico assai più pesante di quello spagnolo, proprio mentre in Germania si tengono elezioni decisive. È vero che fra un anno, quando finirà la legislatura, la situazione politica sarà probabilmente la stessa. Ma anche se dovessimo rassegnarci al proporzionale, per un intero anno Gentiloni potrebbe lavorare in pace e mettere a segno, se ci fosse un sostegno forte del Partito democratico, riforme importanti, che migliorerebbero la nostra credibilità in Europa.
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