La Camera dei Deputati ha approvato nella giornata di ieri il disegno di legge in tema di consenso e dichiarazioni anticipate di trattamento. Un esame analitico e un giudizio complessivo del testo potranno farsi al momento dell’approvazione finale, dopo l’esame del Senato. Nella sua struttura d’insieme, però, il progetto già si presta a tre ordini di considerazioni.

Le conferme. Una prima parte del disegno di legge conferma e precisa quanto già consolidato a livello di diritto vigente. Si tratta, in particolare, del principio del consenso informato, cui si riferisce l’articolo 1 del progetto. Di esso, la Corte costituzionale ha chiarito, quasi dieci anni fa, il significato, la natura e le basi: «Inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei princìpi espressi nell’articolo 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli articoli 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e […] che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”» (sent. n. 438 del 2008). Oltre che nella Costituzione, tale principio è presente anche a livello internazionale (implicitamente nella Convenzione europea dei diritti dell’Uomo ed espressamente nella Convenzione di Oviedo del 1999 che, in assenza di una compiuta ratifica da parte italiana, costituisce comunque un sicuro ausilio interpretativo) e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Inoltre, sia la giurisprudenza di Cassazione, sia il codice di deontologia medica fissano il principio secondo cui il medico «non intraprende né prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato» (art. 35 del codice).

In questo senso, quindi, la Camera conferma una posizione assodata e, per così dire, indisponibile, che nulla ha a che fare con le ipotesi di assistenza al suicidio o omicidio del consenziente (eutanasia) e la cui negazione comporterebbe, anzi, la violazione della Costituzione, del diritto dell’Unione europea e internazionale, e della deontologia professionale.

Pur a fronte di tali dati, alcuni hanno criticato il disegno di legge in quanto ridurrebbe il medico a un mero esecutore delle volontà del malato.

Tale posizione non considera che oggi la decisione sulle cure è affidata non più al solo professionista della salute, ma a un percorso di avvicinamento e di potenziale incontro fra due sfere di autonomia e responsabilità complementari: quella del medico e quella della persona malata. La complementarietà delle posizioni è decisiva per comprendere il significato attuale del consenso informato, il quale si compone di due fasi. La prima, quella informativa, ha come protagonista il medico, che dovrà spiegare con chiarezza percentuali di successo, controindicazioni, effetti collaterali, statistiche di rischio e alternative. La seconda, quella decisionale vera e propria, consiste in un giudizio di coerenza della proposta con la volontà del malato, con i suoi progetti e convincimenti. Si tratta di una scelta di natura morale, e in quanto tale presa dal malato sulla base della rappresentazione della propria umanità, dell’immagine che ha di sé e del ricordo che vuole lasciare. In questo percorso complesso e difficile, il medico è chiamato ad accompagnare la persona malata, dandole tutti gli strumenti perché possa prendere la decisione per lei più autentica e coerente (bene quindi il disegno di legge nella parte in cui, alla pari del codice deontologico, dispone che il tempo della comunicazione costituisce tempo di cura), e tentando di evitare che fattori esterni, come quello legato al dolore, possano pesare in maniera sproporzionata (bene quindi anche il richiamo alle cure palliative).

In ogni caso, in presenza di richieste illegittime (come quelle di segno eutanasico) o non supportate da risultati sperimentali (come per il metodo Stamina: cfr. il dossier nel sito www.biodiritto.org) il testo è chiaro nel tutelare l’autonomia del medico tesa a rifiutare la richiesta di trattamenti «contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali».

Nessun automatismo, quindi, ma l’assunzione di un impegno carico di attenzioni e responsabilità umane e professionali; un impegno decisivo per evitare che una scelta presa in solitudine dal “medico paternalista” sia sostituita dalla solitudine del malato di fronte a un foglio da firmare.

Un secondo elemento che ha suscitato forti critiche in sede non solo parlamentare si ricollega alla possibilità per il paziente di rifiutare anche nutrizione e idratazione artificiali, considerate nel disegno di legge alla stregua di trattamenti sanitari alla pari degli altri. Quanti disapprovano questa presa di posizione sostengono che si tratti di cure del tutto particolari che, in quanto destinate a fornire acqua e cibo, non sarebbero rifiutabili dal malato.

Al riguardo, può ricordarsi come le sacche utilizzate per tali pratiche non siano riempite degli alimenti che ognuno di noi mangia ogni giorno, ma di una miscela composta da aminoacidi, glucosio, lipidi, elettroliti, oligoelementi, vitamine e, spesso, farmaci. Nella maggior parte dei casi, inoltre, il nutrimento è somministrato attraverso un sondino naso-gastrico (un catetere che da una narice raggiunge lo stomaco) o la PEG (un tubicino che attraverso un foro nella cute e nella parete dello stomaco collega la cavità gastrica con l’esterno).

La composizione e le procedure di assunzione di nutrizione e idratazione artificiali, quindi, sono talmente complesse che la persona che la prescrivesse o eseguisse senza essere medico commetterebbe il reato di esercizio abusivo della professione (art. 348 del codice penale). E parrebbe davvero paradossale negare la qualifica di “trattamento sanitario”, in quanto tale rifiutabile, ad una attività che solo un medico può gestire.

Oltre a tale motivazione di carattere tecnico, ci si può anche interrogare sul fondamento e sulle conseguenze logiche del ragionamento teso a sottrarre al principio del consenso (e quindi al diritto al rifiuto) le sole pratiche di nutrizione e idratazione artificiali. Se ci si basasse sulla crudeltà consistente nel far morire “di fame e di sete” un essere umano, ad esempio, si dovrebbe estendere la limitazione del rifiuto anche alla ventilazione meccanica, la cui interruzione provocherebbe una morte per asfissia. Ma lo stesso potrebbe dirsi per l’amputazione di un arto in cancrena, per un trattamento antibiotico in presenza di un’infezione severa e, in definitiva, per ogni trattamento di sostegno vitale. Le conseguenze logiche di tale ragionamento, insomma, giungerebbero ad imporre ogni trattamento di sostegno vitale anche contro la volontà della persona, trasformando il diritto di cura in un dovere onnicomprensivo.

La scelta del disegno di legge tesa a riconoscere nutrizione e idratazione artificiali quali trattamenti rifiutabili pare quindi del tutto logica, oltre che, ancora una volta, in linea con risalente giurisprudenza costituzionale che, quasi trent’anni fa, ha precisato come una cura non possa essere imposta contro la volontà di una persona capace e consapevole al solo fine di preservarne la salute. Secondo la Consulta, perché una legge che impone un trattamento sanitario sia compatibile con la Costituzione (art. 32) occorre che «il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale» (sent. n. 307 del 1990).

Altri profili su cui il disegno di legge pare sostanzialmente confermare quanto già previsto a livello giurisprudenziale e deontologico sono la considerazione della volontà del minore, principio che anzi si dovrebbe rafforzare in considerazione del grado di maturità; l’astensione dai trattamenti futili e sproporzionati (il cd. accanimento terapeutico); la legittimità del ricorso alla sedazione palliativa profonda continua; l’importanza della cartella clinica e del fascicolo sanitario elettronico.

Le novità. Se approvato anche dal Senato, il disegno di legge costituirà anche il primo testo legislativo in tema di direttive anticipate di trattamento (Dat, il cd. bio-testamento). Pure a tale riguardo, peraltro, l’ordinamento italiano presenta già alcuni principi generali che sono stati evinti, ancora una volta, dalla giurisprudenza, dal diritto internazionale e dalla deontologia.

Il codice di deontologia medica, ad esempio, si allinea alla citata Convenzione di Oviedo nel prescrivere che il medico debba «tenere conto» di quanto precedentemente espresso dal paziente (art. 38 del codice; art. 9 della Convenzione). E l’amministratore di sostegno (artt. 404 e ss. del codice civile), istituto nato per altre esigenze, è stato efficacemente utilizzato dalla giurisprudenza quale figura abilitata a rappresentare in ambito sanitario le volontà del malato non più capace di esprimersi. Tali principi, peraltro, contengono forti margini di incertezza relativi, ad esempio, al grado di vincolatività delle direttive anticipate o agli strumenti attivabili per raccoglierle. La Corte costituzionale ha così recentemente dichiarato illegittima una legge regionale del Friuli - Venezia Giulia che aveva istituto il registro delle Dat in ragione del fatto che la competenza legislativa in questione si riferisce a materie (ordinamento civile, identità e integrità della persona) di esclusiva competenza dello Stato (sent. n. 262 del 2016: cfr. www.biodiritto.org); con la conseguenza che l’esercizio del diritto di esprimersi anticipatamente sulle cure è stato impedito nelle more dell’approvazione di una legge statale.

Da questo punto di vista, il disegno di legge qui in esame potrebbe costituire la novità in grado di sbloccare una situazione di impasse non altrimenti aggirabile.

Per quanto riguarda la disciplina concreta contenuta nel disegno di legge (art. 4), va rilevato come le Dat facessero riferimento, nella versione originaria, non solo al consenso  o al rifiuto di un determinato trattamento, ma, più in generale, alle «convinzioni e preferenze» della persona. Grazie a questa condivisibile previsione, il fiduciario, figura prevista in rappresentanza della persona divenuta incapace, avrebbe potuto orientarsi anche in situazioni e per trattamenti non specificamente previsti.

Questione complessa riguarda il carattere più o meno vincolante delle dichiarazioni. Nel diritto comparato, si prevede che le stesse siano vincolanti, a meno che non vi siano stati rilevanti mutamenti della situazione (da quando le volontà sono state espresse a quando dovrebbero essere concretamente applicate) tali da far pensare che la persona avrebbe potuto decidere in maniera diversa. Gli esempi tipici riguardano la mancata vincolatività di direttive di interruzione di trattamenti di sostegno vitale nel caso si tratti di una donna che, nel frattempo, è rimasta incinta, oppure nel caso in cui siano stati scoperti nuovi e più efficaci trattamenti che il malato divenuto incapace non poteva conoscere ma che avrebbe potuto accettare. In caso di dubbio, insomma, “pro vita”.

Su basi simili, il disegno di legge originario prevedeva che le Dat potessero essere disattese dal medico, in accordo con il fiduciario, qualora sussistessero «terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione, capaci di assicurare possibilità di miglioramento delle condizioni di vita».

Pare invece creare più problemi di quelli che intendeva risolvere l’emendamento approvato ieri dalla Camera, che estende la non vincolatività delle Dat anche ai casi in cui le stesse «appaiano manifestamente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente».

In caso di disaccordo fra il medico e il fiduciario, comunque, è previsto l’intervento del giudice tutelare; intervento che, se rischia di burocratizzare e decontestualizzare la decisione da prendere, rimane pure difficilmente sostituibile.

Una seconda novità da salutare con particolare favore riguarda la previsione della pianificazione condivisa delle cure (art. 5). Si tratta di una tipologia intermedia tra il consenso attuale e le Dat, in cui una persona già affetta da patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione infausta esprime le proprie volontà in riferimento ai successivi trattamenti. Tali volontà si riferiscono non a una situazione astratta ed ipotetica, come invece le Dat, ma ad una condizione già attuale e in prevedibile evoluzione. Per questo, il procedimento di informazione e le modalità di espressione sono opportunamente semplificate.

Una ulteriore novità del disegno di legge è rappresentata da un articolo transitorio (art. 6) che permette di mantenere la validità dei documenti già depositati presso il comune di residenza o davanti al notaio. Tale disposizione, che potrebbe essere accompagnata da opportune modalità di verifica della permanente validità di quanto espresso, costituisce certamente un utile collegamento fra il regime passato e quello nuovo.

Le criticità. Per quanto detto, il disegno di legge fin qui commentato pare fra i testi più equilibrati che siano stati discussi in sede parlamentare; certamente più proporzionato e in linea con i principi costituzionali di quanto fosse il precedente disegno di legge Calabrò che presentava profili di illegittimità costituzionale e di vera e propria inapplicabilità (cfr. Lo schema di testo unificato “Calabrò” su consenso e dichiarazioni anticipate, in Forum di Quaderni costituzionali, www.forumcostituzionale.it).

Alcune parti del testo, pure, si prestano a considerazioni critiche. Anziché parlare di “direttive” anticipate, si utilizza la formula “dichiarazioni”, la quale, da un punto di vista almeno terminologico, pare depotenziarne la portata vincolante. Le forme previste per la Dat (atto pubblico, scrittura privata autenticata o scrittura privata consegnata all’ufficiale dello Stato civile o alle strutture sanitarie regionali) potranno condurre a una eccessiva burocratizzazione del processo, e quindi a un suo rallentamento sostanziale. E alcune formule vaghe (in riferimento alla non appropriatezza delle Dat, ad esempio) potranno condurre ad un alto tasso di litigiosità, con una dilatazione dell’intervento da parte giurisdizionale. Anche le volontà del malato minorenne ma sufficientemente maturo avrebbero dovuto essere prese in maggiore considerazione, seguendo una tendenza ormai in atto in molti ordinamenti statali e nel diritto internazionale.

Il riferimento alla capacità di intendere e volere, anziché alla capacità di esprimere in forma consapevole e autentica le proprie volontà, è un punto che si dovrebbe correggere al Senato, al fine di rendere il testo più aderente alla multiforme realtà delle condizioni soggettive dei malati e per evitare ulteriori discriminazioni a carico dei soggetti dichiarati incapaci. Un emendamento approvato alla Camera, inoltre, prevede che, pur a fronte della volontà espressa di rinunciare ad un trattamento, «il medico non ha obblighi professionali». Tale enunciato pare ambiguo e inopportuno. Si legittima, in questo senso, una sorta di obiezione di coscienza che, se è tipicamente prevista negli Stati in cui è lecito, ad alcune condizioni, un intervento diretto teso all’assistenza al suicidio, non trova corrispondenti legislativi in altri Stati in riferimento al diritto al rifiuto di trattamenti sanitari. Questo perché il medico non può esercitare un potere incondizionato nei confronti dei malati che chiedono il rispetto di una loro volontà del tutto legittima; e perché la medicina deve trovare i propri limiti, i quali devono essere compresi dai professionisti. Se inoltre prendiamo a riferimento l’obiezione di coscienza in tema di interruzione volontaria di gravidanza, i cui alti tassi fanno oggettivamente sospettare un ricorso non autentico a tale istituto da parte del personale sanitario, il rischio è che anche in questo ambito tale strumento venga utilizzato per motivi relativi più a logiche legate alla medicina difensiva o alla convenienza che a convincimenti personali profondi.

Proprio da un punto di vista professionale, inoltre, ho ricordato sopra come il codice di deontologia disponga che il medico non debba intraprendere né proseguire in interventi senza acquisizione del consenso (art. 35). La relazione medico-paziente, ho commentato, si costruisce su sfere complementari di autonomia e responsabilità, in cui, anche da un punto di vista deontologico-professionale, ognuno è chiamato a fare la sua parte. Nel riservare al medico la facoltà di non seguire il malato nella sua legittima aspirazione, la disposizione di legge, quindi, pare “più realista del re” o, per usare l’equivalente e suggestiva affermazione inglese, “more Catholic than the Pope”.

In conclusione, l’approvazione definitiva del disegno di legge, con le sue conferme e novità, e con l’auspicio di un intervento sulle criticità indicate, potrebbe contribuire a colmare un ritardo legislativo divenuto ormai insostenibile e a chiudere una fase caratterizzata, ancora solo in Italia, da battaglie di retroguardia, il cui unico risultato è quello di non prendere sul serio né i diritti del malato né quelli del medico. La maggioranza degli altri ordinamenti ha chiuso da tempo tali questioni e può rivolgersi alle innovazioni e alle sfide che la medicina e le scienze della vita nel loro complesso già stanno facendo emergere.