Race, in inglese, ha due significati: corsa e razza. In effetti i due temi costituiscono, tra loro intrecciati, l’ossatura del film di Stephen Hopkins da poco nelle sale. Si tratta della storia di uno dei miti dello sport di tutti i tempi, Jesse Owens, che alle Olimpiadi di Berlino del 1936 vince quattro medaglie d’oro sotto gli occhi stupefatti e contrariati delle alte gerarchie naziste, Hitler compreso: 100 e 200 metri piani, salto in lungo, staffetta 4 X 100.
Probabilmente non c’è chi ignori di cosa si tratta, anche a 80 anni di distanza. La fama dell’atleta nero, originario dell’Alabama, ha oltrepassato infatti l’ambito semplicemente sportivo per fare di Owens un eroe, un grande a tutto tondo: il simbolo della democrazia che attraverso i valori dello sport sconfigge la barbarie dell’ideologia nazista, della superiorità della razza ariana, di una «razza» sulle altre. Assegnati alla Germania ancora all’epoca della Repubblica di Weimar, i giochi sono fortemente voluti dal nazismo e organizzati con estrema cura e fasto per promuovere nel mondo l’immagine della rinata e rivitalizzata nazione tedesca. Che, però, proprio all’Olympiastadion stracolmo di folla, inciampa clamorosamente nel velocista nero capace di sconfiggere per ben quattro volte i campioni di casa. Così facendo Owens materializza quello che è considerato il fondamento teorico dello sport moderno: tutti i partecipanti alla competizione sono uguali in partenza. Vince il più forte, gareggiando secondo giustizia e secondo i valori universali del talento, del coraggio, della volontà, del merito… In quei 10 secondi che sono la durata dei 100 metri piani, chiarisce Owens al suo allenatore, «sono libero. Non ci sono più bianchi o neri, ma solo uomini più veloci e uomini più lenti».
Ma Owens, così dicendo, non si riferisce semplicemente alle condizioni di ebrei e gruppi «inferiori» perseguitati nella Germania nazista, ma anche alle discriminazioni che nella «democratica» America interessano soprattutto la comunità nera.
Il film, molto didascalico e superficiale nel tratteggiare i personaggi e le loro relazioni, senza una sceneggiatura e regia più radicali (e senza una colonna sonora all’altezza: il confronto con Momenti di gloria è inevitabile), ha tuttavia il merito di rispettare e descrivere quella storia nella sua effettiva complessità.
Senza semplificazioni: tutti i buoni da una parte, i cattivi dall’altra. Così rappresenta ripetutamente (anzi, forse di più) la condizione tutt’altro che privilegiata del «lampo d’ebano» in patria. Owens è osteggiato dai compagni d’università e di squadra bianchi, tollerato perché utile alla causa dello sport nazionale, viaggia in terza classe sulla nave che lo porta in Europa per le Olimpiadi, deve fronteggiare perfino lo scetticismo e la rassegnazione della sua comunità d’appartenenza. Dopo il trionfo olimpico non è ricevuto dal presidente Roosvelt e, addirittura, benché invitato a una festa alla Casa Bianca è costretto a entrare dalla porta secondaria. Infine, dopo anni di disoccupazione troverà un posto di custode presso l’università dell’Ohio in cui ha cominciato la sua carriera.
Avery Brundage, d’altra parte, presidente del Comitato olimpico statunitense, non ci fa una gran bella figura: intrallazza con la Germania per via di pingui appalti (lui che è costruttore), esclude i due velocisti americani ebrei dalla staffetta per assecondare l’antisemitismo tedesco e rinuncia da subito alla possibile scelta di boicottare i giochi in nome della separazione di sport e politica. Divenuto presidente del Cio nel secondo dopoguerra, confermerà del resto più volte la sua ambiguità nella gestione dello sport mondiale.
Nel campo opposto, il lunghista Lutz Long – avversario di Owens – è secondo verità storica il tedesco «buono» della situazione, cavalleresco avversario di Owens e a lui legato da fraterna amicizia anche negli anni seguenti. La stretta di mano tra i due atleti compensa quella che Hitler non volle accordare all’americano per ovvie ragioni. Così come della regista Leni Riefensthal, autrice del celebre documentario su quei giochi (i due Olympia: Fest der Völker e Fest der Schönheit), è sottolineata la volontà di filmare la realtà dei giochi. Dunque, anche le gare sgradite ai gerarchi nazisti.
Un’ultima osservazione (da parte di chi in gioventù ha praticato un po’ di salto in lungo): ma come è stato possibile far saltare gli atleti in buche che invece di sabbia sembrano piene di cemento?
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